il DDl Zan e il Vaticano. Ai confini della civiltà di Giovanni Monchiero

Ai confini della civiltà

Quando, qualche settimana fa, si diffuse la notizia dell’intervento del Vaticano sul ddl Zan, pensai: siamo alle solite; nemmeno papa Francesco riuscirà mai a cambiare la curia. Poi, però, di fronte ai contenuti della nota, “riservata” ma rapidamente finita sui giornali, ho corretto la mia opinione. Con tutte le prudenze del linguaggio diplomatico, la Segreteria di Stato si limita ad evidenziare il rischio che l’applicazione delle nuove norme si ponga in contrasto con il concordato in materia di libertà di insegnamento nelle scuole cattoliche, senza entrare nel merito dei temi antropologici ed etici oggetto della legge.  Un’autentica inversione di tendenza.

Da qualche decennio in qua, infatti, la Chiesa si è spesso trovata sola a difendere principi etici (pensiamo al fine vita) che non sono di stretta derivazione religiosa. Citavo, nel precedente intervento, il “giuramento di Ippocrate”, certamente compatibile con qualsiasi fede, ma che deriva da un’etica laica, anteriore all’avvento del cristianesimo, fondata sulla ragione non sui miti dell’Olimpo. Molto opportunamente il cardinale Parolin si è limitato a difendere gli interessi delle istituzioni cattoliche, tutelati da un trattato internazionale, senza entrare nel merito dei valori evitando di trascinare la Chiesa in un dibattito che, da sinistra, è stato molto inopportunamente battezzato “battaglia di civiltà”.

Quando il tuo interlocutore ti dice che la sua è una battaglia di civiltà, un po’ di soggezione te la induce. Il timore di passare, se non per incivili, certo per retrogradi ha condizionato l’esame della legge alla Camera dove è stata approvata senza una reale discussione. Che peraltro merita e che speriamo possa finalmente nascere durante l’esame in aula al Senato anche se le consuetudini del Parlamento vanno in direzione opposta: se non si è riusciti a costruire, in Commissione, le condizioni per un sereno approfondimento dei punti più controversi, è molto improbabile che lo si faccia in aula.

Nulla ci vieta, tuttavia, di sperarlo, anche perché la legge, così com’è, suscita molte, laiche, perplessità. A cominciare dall’opportunità di estendere ai cittadini riconducibili alla sigla Lgbt le norme della legge Mannino contro le discriminazioni razziali e religiose. Davvero omosessuali, bisessuali e transessuali sono discriminati?  Di fronte alla legge, nelle carriere, nella stessa vita politica? Oserei dire di no, ma in ogni caso, perché accomunarli, sin dal titolo della legge e in tutti gli articoli, ai disabili?

Immagino lo sforzo dei proponenti di rendere più attrattiva la norma, ma fino a ieri non era lecito definire l’omosessualità una malattia (ricordate “Cado dalle nubi”?). Suscita meraviglia che oggi si possano invocare tutele comuni per disabili e gay.  

Poi ci sono le definizioni dell’articolo 1. Per fortuna si salva il concetto di sesso biologico ma quelli di genere e di identità di genere percepita (“anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dall’aver concluso un percorso di transizione”) meritano un ripensamento. Dubito che consentire al singolo di dichiararsi maschio o femmina a suo piacimento, magari a mesi o anni alterni, faccia compiere alla nostra società un balzo in avanti sulla via della civiltà. Così come l’aggravante di discriminazione omofoba introdotta all’art.6 che può aumentare del 50% la pena inflitta per il reato commesso. Norma improvvida che suscita facili ironie: dare un cazzotto ad un gay diventa più grave se a darlo è un etero, il quale però, di fronte al giudice, potrà sempre dichiararsi bisessuale e pareggiare i conti.  

Bontà sua, l’estensore della proposta di legge fa salva la libertà di pensiero, purché le opinioni liberamente espresse non siano “idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori.”  Un “attento a come parli” che non mi sembra in linea con le libertà garantite nella Costituzione.

Ad ottenere l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge ci abbiamo messo secoli. Negli ultimi tempi è invalsa l’abitudine di ritoccare di continuo il nostro Codice penale per aggiungere tutele e aggravare pene, nell’intenzione di sostenere cause apparentemente buone. A prescindere da qualsiasi verifica dell’utilità di queste innovazioni, resta la questione di fondo. Si è uguali finché si è tutti uguali. Se qualcuno è più uguale degli altri si cade nell’ingiustizia o nel ridicolo.

 

 

13 luglio 2021