Le riflessioni di Giovanni Monchiero di inzio mese – settembre 2021-
È tornata la politica
Eravamo giunti a dibattere della fine della politica, a paragonare Draghi a De Gaulle, ad invocare modifiche della Costituzione per far fronte alla domanda di governi forti, implicita nel reiterato ricorso a governi “tecnici” guidati da personalità al di fuori della politica e di riconosciuto prestigio internazionale. Di salvatori della patria, nell’ultimo decennio, ne abbiamo avuti due. Monti che salva l’Italia dall’incubo dell’insolvenza; Draghi che le dà credibilità per ottenere copioso soccorso dall’Europa dopo il disastro economico causato dalla pandemia. Entrambi godono di amplissime maggioranze parlamentari e agiscono nei fatti come se il Parlamento quasi non ci fosse. I buoni risultati ottenuti (l’Italia dieci anni fa non è fallita; oggi sta fronteggiando efficacemente il Covid e fa intravedere una prospettiva di solida crescita economica) inducono molti commentatori a vagheggiare la stabilizzazione dell’eccezionalità e a sperare in una lunga eclissi della politica.
Qui bisogna intendersi sul significato di “politica”. Anche i governi tecnici assumono decisioni politiche; sono lì per quello e quindi fanno politica. Ma nei discorsi da bar come negli articoli di fondo dei quotidiani, per “politica” si intende una cosa diversa : il campo di attività degli eletti nelle istituzioni pubbliche e i risultati delle loro azioni, accomunati – terreno di gioco, giocatori e gioco stesso – in un unico giudizio negativo.
Ebbene sia coloro che contavano sulla fine della politica sia quanti temevano una conseguente deriva antidemocratica devono, alla luce degli ultimi eventi, serenamente ricredersi.
Sono bastate 48ore al più dinamico dei nostri leader politici per approvare, in tema di “green pass”, le proposte del governo, contestarle su ogni mezzo di comunicazione disponibile, depositare emendamenti in parlamento, ritirarli in cambio alla rinuncia di Draghi a porre la fiducia e poi votare quelli, analoghi, presentati dall’opposizione. Sempre dichiarando fedeltà al governo e al suo presidente.
La politica, dunque, è tornata. Ma se ne era andata davvero?
Che cosa erano, se non concessioni alla “politica”, i tentennamenti del governo in materia vaccinale; la dissonante creatività dei presidenti di Regione; le disposizioni contradditorie su mascherine, vaccini e tamponi, dettate, ritirate, corrette, riproposte in quel paradigma del caos che è la scuola; le incongruenze del green pass, obbligatorio per i clienti di bar e ristoranti ma non per cuochi e camerieri ? E come definire, se non “politica”, la richiesta sindacale che i tamponi dei lavoratori no-vax siano a carico dello Stato? Ci avevano già provato con i professori, adesso lo chiedono per tutti.
Questo è quel che, in Italia, si intende per “politica”: l’insieme delle azioni – comprese le parole – di autorità di ogni ordine e grado che strizzano l’occhio ai “furbi”, che mostrano comprensione al più dissennato individualismo, che considerano tollerabile ogni comportamento antisociale, in primis non pagare le tasse, condizione rivendicata dai piccoli imprenditori come necessaria all’economia di sussistenza, minacciata dallo Stato esattore.
Ricorderete che, in piena pandemia, le categorie destinatarie dei promessi “ristori” pretendevano che non venissero rapportati alla dichiarazione dei redditi degli anni precedenti, trovando accorato ascolto da parte di molti governanti. Poi è arrivato Draghi e la politica ha fatto qualche cauto passo indietro, ma sta già rialzando la testa.
Questo insieme di individualismo cieco, di rivendicazione di ogni diritto e di disprezzo per il dovere costituisce il brodo di coltura di quel che chiamiamo “politica”. Vi prospera, naturalmente, il popolo dei no-vax.
Sulle pagine locali de “La Stampa” leggo che nella mia piccola ASL 432 sanitari non risulterebbero vaccinati. Un numero enorme, il 25% dei dipendenti o forse più, impensabile nella laboriosa e austera provincia di Cuneo. Credo si tratti di un errore. Mi attendo una smentita, che non viene. Immagino un’ondata di sdegno, ma siamo fra acque stagnanti.
Anche questo è “politica”. Sbandierare severità draconiana nel produrre le leggi e non preoccuparsi per nulla della loro applicazione.
10 settembre 2021
Vent’anni
I sentimenti di angoscia per la sorte delle migliaia di afgani che si accalcano all’aeroporto di Kabul nel disperato tentativo di trovare un mezzo che li porti in occidente hanno sottratto spazio all’analisi della complessità dei fatti. Lo slancio umanitario o magari una gran voglia di scavalcare nel bene il proprio governo hanno indotto molti politici europei ad invocare interventi meglio organizzati e non limitati al 31 agosto. Per contro, illustri commentatori di area liberal-democratica hanno colto in queste posizioni una critica preconcetta verso gli Stati Uniti, ritenuta ingiusta, pretestuosa ed animata da un crescente disamore verso la democrazia stessa.
Ne è nato un dibattito sulla democrazia e sulla possibilità di esportare il nostro modello di governo dello stato in paesi di cultura e tradizione politica lontanissime dalle nostre. È giusto trasferire i benefici del vivere da uomini liberi a popolazioni che non ne hanno mai goduto? E se sì, con quali mezzi? È lecito l’uso delle armi contro i governanti di un popolo soggiogato da un regime totalitario? Al diritto di ogni uomo a vivere libero, corrisponde il diritto-dovere di chi libero lo è già a muovere guerra per spezzare quelle catene?
A coloro che non sembrano nutrire dubbi in una risposta affermativa, vorrei far presente che il caso dell’Afganistan sta proprio lì a dimostrare il contrario.
Comprendo che l’onda delle emozioni possa far dire che dobbiamo profondere un più consistente impegno per difendere la vita di chi ha collaborato con noi. Ma sono vent’anni che gli USA e i loro alleati (Italia compresa) sono presenti in Afganistan. Vent’anni di guerra che – dopo la rapida sconfitta del regime degli “studenti coranici” – è stata combattuta piuttosto stancamente comportando tuttavia la perdita di 3850 soldati, fra cui 53 italiani. Vent’anni di ricostruzione parallela: lontano dai combattimenti, i governi e le ONG occidentali hanno realizzato scuole ed ospedali, laboratori e luoghi di accoglienza. Uno sforzo complessivo costato, si dice, 3.000 miliardi di dollari, di cui una decina a carico del contribuente italiano. Vent’anni, il tempo di crescere ed educare una generazione.
Cos’è rimasto di questi vent’anni? Uno stato che si è sciolto come neve all’equatore. L’11 agosto funzionari americani stimarono che Kabul non avrebbe retto più di 90 giorni; qualche commentatore italiano li tacciò di disfattismo, ma la capitale è caduta in meno di 90 ore. L’esercito, addestrato dagli occidentali ed equipaggiato al meglio, si è arreso senza sparare un colpo. Il Presidente se l’è squagliata con il malloppo (170 milioni di dollari, si dice, giusto compenso per i rischi corsi nell’impresa) come un qualunque dittatorello sudamericano.
Le vittime della disfatta sono le migliaia di disperati che avevano lavorato per le ambasciate, le truppe e le ONG dei paesi occidentali e speravano in un futuro migliore. Per gli altri, per la stragrande maggioranza dei 38 milioni di afgani, il tempo si è fermato e possono riportare indietro le lancette dell’orologio all’ora della Sharia. Non credo che glie ne dispiaccia più di tanto.
Gli Afgani non sono un popolo di codardi. Anzi, hanno fama di guerrieri audaci e feroci. Se nessuno ha ritenuto di imbracciare il fucile per difendere la libertà che gli avevamo portato, è perché di questa novità non sapeva che farsene.
Non si esporta la democrazia. Che, fra l’altro, nemmanco gode di buona salute. Nei giorni dell’esodo, mentre Biden balbettava scuse per spiegare le conseguenze della precipitosa fuga da Kabul, un suprematista bianco, trumpiano e neonazista, si aggirava con un camion imbottito di tritolo nei pressi di Capitol Hill. È stato arrestato, ma l’episodio costituisce un inquietante segno dei tempi.
Soffocata dai miasmi di fanatismi di ogni genere la democrazia, in occidente, boccheggia. Se non ci affrettiamo a cercare rimedi, presto non avremo più ragione di discutere se, dove e come esportarla.
2 settembre 2021