Le considerazioni di Giovanni Monchiero”le lunghe permanenze nei Pronto Soccorso”

Tre giorni in barella

 

La compagna di scuola mi chiama, sconfortata, per segnalarmi il caso di un comune amico, ottantenne, obeso, diabetico, cardiopatico, da tre giorni in barella nel pronto soccorso del nostro ospedale, molto bello, ultramoderno, aperto un anno fa. Qualche medico, nella nostra ASL, lo conosco ancora e, in serata, il mio compaesano è stato finalmente collocato in un letto di Medicina.

Non voglio aprire una riflessione sulla liceità della raccomandazione disinteressata e a fin di bene, da contrapporre a quella fatta per favorire qualcuno a fine di clientelismo. Anche il ricorso alla prima evidenzia che qualche meccanismo non funziona, ma  ci sono ben altre cose cui pensare. Vado al funerale di un conoscente, residente a Torino, novantenne. Apprendo dai familiari che è stato colto da malore in casa e sollecitamente portato dal 118 in un vetusto e prestigioso ospedale metropolitano, ove ogni giorno si lavora al massimo delle competenze tecniche, il luogo più appropriato per affrontare un caso complesso. Anche lui tre giorni in barella e trasferimento in reparto giusto in tempo per constatare la conclusione di una vita vissuta quasi senza oneri per il servizio sanitario nazionale.

L’esperienza che accomuna i due casi è la lunga permanenza in pronto soccorso, in condizioni inaccettabili, in attesa del ricovero in reparto che, per entrambi, avrebbe dovuto essere immediato. E tutto accade proprio mentre, a livello politico, si introducono incentivi specifici per gli operatori delle strutture di emergenza, sempre meno disponibili a prestare la propria opera in contesti dove il disagio è dato tanto dal carico di lavoro quanto – suppongo – dalla percezione della disperazione dei pazienti che si sentono abbandonati.

Gli incentivi a medici e infermieri di pronto soccorso sono un doveroso risarcimento, ma non rappresentano un passo avanti nella soluzione del problema. Se, con un colpo di bacchetta magica, domani mattina potessimo incrementare del 30% il personale sanitario nei reparti di pronto soccorso, statene certi, la durata della permanenza in parcheggio barellato non diminuirebbe, anzi, magari costituirebbe un alibi per i reparti di degenza: “possono seguirlo in PS, il personale non gli manca.”

IL problema del pronto soccorso affollato è vecchio come gli ospedali. Se è tuttora irrisolto e si ripresenta anche in un momento non particolarmente sfavorevole (i ricoveri causa Covid sono molto al di sotto del livello di guardia e l’influenza stagionale è ancora ben lontana dal picco) è perché non lo si è mai affrontato con lucidità.

Da trent’anni ci stiamo raccontando che la maggior parte degli accessi sarebbe inappropriata e che basterebbe potenziare il territorio per risolvere il problema. L’opinione è così radicata nel mondo della sanità che nel PNRR soso stati stanziati miliardi per le Case della Comunità – accattivante eufemismo per denominare una inutile riesumazione dei poliambulatori INAM – e per i complementari Ospedali di Comunità, più che inutile, dannosa riproposizione di quelle strutture per cure intermedie realizzate, con scarsa efficacia, in decine di tipologie diverse.  Lo ripeto, le risorse impegnate sul territorio per costruire case senza una ridefinizione dei servizi e dell’organizzazione, si riveleranno male utilizzate e distoglieranno l’attenzione da interventi più risolutivi.

Per tornare all’equivoco di fondo, gli accessi inappropriati (pazienti teoricamente assistibili altrove e che, dopo gli esami di rito, vengono dimessi) grava sul personale ma non incide sul numero né sulla tempestività dei ricoveri. Il collo di bottiglia è nell’antico ed innominabile problema della “capacità di assorbimento” dei reparti, al quale concorrono tutte le inefficienze dell’organizzazione ospedaliera, certo, ma che è innanzitutto condizionato dal numero dei posti letto. Incaute riforme hanno ridotto la dotazione dei nostri ospedali al livello più basso del mondo occidentale.

Il paziente è al centro dell’organizzazione del S.S.N. Quante volte l’abbiamo sentito ripetere, senza costrutto. Ci ironizzava, dall’alto dei suoi anni e del suo prestigio, il grande Elio Guzzanti: anche il pallone sta al centro, ma tutti lo prendono a calci.

 Oggi la usurata figura retorica è utilizzata solo più da politici e sindacalisti. Mentre disputano su come dare attuazione all’assioma, il nostro paziente è già al centro, o magari poco più in là. Ma in pronto soccorso e in barella.    

 

15 novembre 2021