Un ricordo tratto da Mondoperaio sulla figura di Luigi Covatta :ad un anno dalla sua scomparsa
Luigi Covatta
Tratto da Modoperaio Aprile 2022
Le culture riformiste
>>>> Luigi Covatta
Il tema scelto per questo incontro non è così ovvio. Non manca, infatti, fra i promotori del partito democratico, chi pensa che fondare un nuovo partito significhi costituire poco più che un comitato elettorale su un programma di legislatura. Né manca chi pensa al “partito personale”, enfatizzando e drammatizzando così la scelta del leader. O infine chi rinvia ad un Pantheon più o meno attendibile i riferimenti ideali di cui pure ritiene che un partito non possa fare a meno. È il caso, perciò, di ragionare innanzitutto sulla forma partito, per evitare che la critica di quella che Scoppola ha definito La Repubblica dei partiti (non solo della partitocrazia, peraltro, ma anche della forte ideologizzazione dei partiti che l’hanno formata) dia luogo a reazioni eccessive, fino a negare che sia ancora attuale una forma partito fondata su una comune cultura politica, e a sostenere che per giustificare la nascita di un partito riformista sia inutile il confronto col passato recente e remoto del riformismo italiano.
Genesi di una partitocrazia
La partitocrazia, in Italia, non è calata dal cielo. Né si è conformata, come ritiene una discutibile vulgata, principalmente agli orientamenti delle potenze vincitrici della seconda guerra mondiale. Lucio Caracciolo, che pure definisce l’Italia postbellica “un semiprotettorato”, tiene a precisare che “un semiprotettorato non è una colonia né un palatinato”, per cui, benchè “condizionata, consociata, la prima Repubblica è restata comunque e prima di tutto una democrazia”, in cui “i governi italiani sono stati scelti dagli italiani, non dagli americani” e sono stati i comunisti italiani che “hanno preferito la difesa della propria identità/diversità all’opportunità di accedere al governo”. Ed Ennio Di Nolfo documenta la non irresistibile influenza degli alleati perfino sulla piccola Corte di Salerno. In realtà è un altro il motivo principale per cui la formazione del sistema politico repubblicano non ha coinciso né con una rivoluzione liberale, né con una restaurazione liberale, ed è stata invece condizionata da una forte path dependence, grazie alla quale, come dice Salvati, nella sua definizione iniziale “i conflitti ideologici della prima metà del Novecento” sono penetrati “in profondità”. Questa marcata ideologizzazione, che comunque dominava lo scenario postbellico in tutta Europa, secondo Salvatore Lupo “trovò terreno fertile anche nello specifico italiano, forse più che altrove, perché qui era stato inventato il fascismo”. Non a caso, del resto, la divergenza sull’interpretazione del fascismo (che per Croce è una parentesi, per Parri la conseguenza della scarsa legittimazione democratica dello Stato liberale) divise innanzitutto l’antifascismo liberaldemocratico, e costituì il pretesto per la crisi del governo Parri e l’avvento di De Gasperi e del dominio dei partiti di massa. Luciano Cafagna, che sottolinea “i mutamenti intervenuti, con il fascismo, nella ‘forma partito’, come istituzione della società di massa”, sostiene che il partito di massa su base ideologica è un lascito fascista che viene raccolto dalla DC e dal PCI. La prima eredita “le attese di assistenza in senso stretto, e inoltre la funzione di mediazione generale verso lo Stato (una funzione formatasi, o comunque dilatatasi col fascismo) presso il notabilato economico e sociale, nonché i mezzi e la tecnica per la strumentalizzazione del diffuso parastato di fascistica origine”; il secondo risponde alla “attesa sociologica di una successione totalitaria al fascismo”, alla “funzione di manipolazione ideologica della incertezza sul futuro prodotta dal mutamento”, alla “disponibilità di massa agli appelli di piazza e ad ampi inquadramenti, a una partecipazione mobilitata, a uno statalismo che però – ed è la tradizione socialista, che anche il fascismo, comunque, aveva parzialmente interinato – si auspica più sociale, più generale, possibilmente non favoritistico”. E Zunino, che pure sottovaluta drasticamente il ruolo dei socialisti nella formazione del sistema politico e deplora, d’altra parte, il velleitarismo della proposta azionista, documenta impietosamente quanto il partito- Stato fosse penetrato nella società italiana prebellica, e come la società italiana postbellica fosse transitata al nuovo regime senza sostanziali soluzioni di continuità.
* Relazione al convegno di “Libertà eguale” della Lombardia (“Incontri riformisti 2007”). Bagni di Masino, 6 luglio 2007 – Astrid n. 13/2007.
Il passato remoto del riformismo italiano: il riformismo implicito
Questa premessa è utile anche per riflettere sul passato remoto del riformismo italiano, sul quale ci sono due “scuole di pensiero”.Una è quella di Vacca, per la quale è esistito un riformismo implicito della DC e del PCI che non ha potuto dispiegarsi pienamente solo a causa dei condizionamenti internazionali, ma ha avuto, dopo l’età dell’oro della Costituente e dei governi di unità nazionale, una nuova sperimentazione col compromesso storico, per essere finalmente libero di manifestarsi solo dopo il 1989. E’ una tesi sostenuta anche da autori estranei alla tradizione del PCI, come per esempio Rosati e Mastropaolo, i cui presupposti storiografici, peraltro, sono controversi, e vengono ora contraddetti anche da Piero Craveri, che demistifica la versione oleografica della concordia costituente e documenta quanto freddo sia stato il calcolo politico di De Gasperi nel rapporto col PCI. L’altra è quella di Cafagna, che ho cercato di riassumere nel mio Menscevichi, e per la quale la storia del riformismo italiano è storia di minoranze che vengono enucleate nella genesi del sistemapolitico, sconfitte col primo esperimento di centro-sinistra e non diventano necessariamente maggioranza dopo la cesura del 1989. E’ una tesi sostenuta anche da Sabbatucci, che parla di “riformismo impossibile” e praticabile solo “dall’alto”, da Salvadori, che fa risalire, come del resto Sabbatucci, la debolezza della sinistra moderata addirittura ai vizi di legittimazione popolare del Risorgimento, da Lanaro e da Crainz, che individuano nel fallimento del primo centro-sinistra la sconfitta storica del riformismo italiano.
Il passato remoto del riformismo italiano: i menscevichi
Ovviamente posso esporre solo la tesi che condivido, e che individua nel ruolo minoritario del PSI l’origine della iniziale debolezza del riformismo nella storia repubblicana. Secondo Cafagna nel dopoguerra questo partito avrebbe potuto sfuggire alla morsa della partitocrazia duale solo perseguendo un’alternativa populista, peraltro plausibile considerando la figura di Nenni. Infatti dopo la vittoria repubblicana di cui era stato il principale protagonista egli avrebbe potuto essere “il leader populista, o popolar-democratico, della nuova democrazia italiana”, tenendo anche conto che fra le “eredità formali (e sociologiche) del fascismo”, oltre a “quella della partitocrazia pervasiva” c’era anche “quella della leadership populista”. Nenni rifiutò di essere “il romagnolo di turno”, e cercò, un po’ maldestramente, di trovare il suo spazio in seno alla “partitocrazia pervasiva”, inizialmente attraverso un rapporto di simbiosi mimetica col PCI. Fin dal 1948, però, si fa strada un’altra idea del possibile ruolo sistemico del PSI. Lombardi, dopo la sconfitta del Fronte, vince il congresso di Genova sostenendo che “la sconfitta del PSI come forza politica efficiente ed autonoma sarebbe la sconfitta delle istanze democratiche e liberali prima ancora che di quelle socialiste”, e su questa base imposta un programma riformista che poi confluirà nel “Piano del lavoro”, fatto proprio dalla CGIL l’anno successivo, ma sostanzialmente sabotato dai vertici politici di PCI e PSI, ormai totalmente subordinati allo stalinismo.
Cattolici, socialisti e ”socialdemocrazia realizzata”
Il PSI, comunque, specialmente dopo il 1953, comincia ad essere uno dei due poli di riferimento delle forze impegnate nella modernizzazione del paese, quelle in gran parte raggruppate nel cenacolo degli “Amici del Mondo”. L’altro polo è rappresentato dalla sinistra cattolica, sopravvissuta al ritiro di Dossetti ed anzi in grado, dopo la morte di De Gasperi, di assumere la guida della DC con Fanfani. E’ in quegli anni, a cavallo fra i ’50 e i ’60, e per impulso della sinistra democristiana, che in Italia si realizza qualcosa di assai simile al modello socialdemocratico europeo, con lo sviluppo dell’economia mista e delle tutele sociali del lavoro dipendente.
Ed è per cercare una sponda politica adeguata a questa strategia che nella sinistra democristiana si comincia ad auspicare la “apertura a sinistra”. Il PSI, soprattutto dopo il 1956 e la confluenza degli ex comunisti di Giolitti che si affiancano agli ex azionisti di Lombardi e Codignola, corrisponde a questo disegno, e si configura sempre più come il “partito dei moderni”: il luogo, cioè, in cui le minoranze modernizzanti dei partiti di sinistra trovano non solo la loro naturale collocazione, ma anche una straordinaria valorizzazione. Il disegno di Fanfani e Lombardi, però, non si realizza. Non tanto in seguito al prevedibile sabotaggio messo in opera dal PCI, ma per il sabotaggio interno alla DC, che si manifesta con la rivolta dorotea contro Fanfani. Come scrive Cafagna si determina così “uno stravolgimento dell’idea originaria del centro-sinistra”, che “trovava il suo senso nell’apporto di una spalla politicamente adeguata al manifestarsi dell’anima riformatrice della DC”,mentre “senza Fanfani tutto l’onere del riformismo veniva spostato sulle spalle del partner di minoranza della coalizione”, finendo per non “essere più una politica di governo, ma al massimo una pressione interna al governo”, determinando un circolo vizioso in cui “la DC chiamava dentro i socialisti non offrendo una politica riformatrice contro un sostegno, bensì, più prosaicamente, vendendo posti di governo contro un sostegno”. Il risultato fu che, “mentre in uno scambio politico del primo tipo (politica riformatrice contro sostegno) i socialisti avrebbero potuto ottenere una merce rivendibile all’elettorato di sinistra (e tentare così di rafforzarsi, anche a spese dei comunisti), nello scambio svilito del secondo tipo (meri posti di governo contro sostegno) non ottenevano una merce investibile elettoralmente, ma una merce solo consumabile, per così dire, in casa dal ceto politico socialista in quanto tale”.
Mi sono diffuso sul fallimento del primo centro-sinistra perché lo considero un tornante decisivo per le sorti del riformismo italiano, su cui vale la pena di riflettere anche oggi. Innanzitutto da parte degli epigoni della sinistra cattolica. Recentemente Ernesto Galli della Loggia, in uno dei suoi brevi corsivi sul Corriere, ha rinfacciato a questa componente di pretendere l’intera eredità democristiana, da De Gasperi a Dossetti, da Sturzo a Fanfani. La contestazione è ben fondata, se si pensa che De Gasperi costrinse Dossetti a ritirarsi dalla vita politica e Sturzo considerava Fanfani poco meno che un pericolo per la libertà. Ed è politicamente attuale, perché una ricostruzione più selettiva della propria genealogia potrebbe indurre questa componente a riconoscersi nei fondatori di quella che è stata la “socialdemocrazia realizzata”in Italia, ed a porsi, conseguentemente, come problema anche proprio, e non solo di altri, la prospettiva di andare “oltre la socialdemocrazia”. Ma la riflessione sarebbe utile anche agli epigoni del PSI e del PCI. I primi potrebbero trovare motivi per smorzare i propri furori identitari, rivalutando il ruolo sistemico dell’autonomia socialista, promossa allora da un ex azionista e da un ex comunista come trent’anni prima era stata difesa dal repubblicano Pietro Nenni. E per ricordare quanto fecondo fu allora l’incontro con la cultura cattolica, anche per laicizzare e deideologizzare il sistema politico italiano. Tanto che uno dei pochi riformisti di autoctona ascendenza socialista, Fernando Santi, scelse il convegno aclista di Vallombrosa del 1968 per auspicare che “forze che si muovono in tutti i campi, in quello cattolico, in quello socialista, in quello comunista” dessero vita, nell’ambito della sinistra, ad “una forza politica non egemonizzata da parte di chiunque, garante e fedele ai principi della democrazia e della libertà, nel rispetto della coscienza di ciascuno e di tutti, capace di offrire un’alternativa alla guida ed alla gestione moderata del potere”.
Il partito unico dei lavoratori e il compromesso storico
Quanto agli epigoni del PCI, è bene non dimenticare la fine che fece la coraggiosa proposta di Amendola sul partito unico dei lavoratori, e quali conseguenze ebbe la sua bocciatura nella selezione del gruppo dirigente comunista dopo la morte di Togliatti. Fu allora, infatti, che nella gerarchia interna Napolitano venne scavalcato da Berlinguer, per il quale invece del partito unico dei lavoratori bisognava perseguire “una più stretta unità delle forze autenticamente socialiste (e cioè delle forze che respingono l’ideologia e la politica socialdemocratica, mantenendo ferma la loro fedeltà ai principi del socialismo e sono decise a battersi per la trasformazione socialista dell’Italia)”, dal momento che “tutta l’esperienza delle socialdemocrazie europee e l’esperienza italiana dimostrano che ogni rinuncia sul terreno della prospettiva del socialismo e ogni distacco dall’internazionalismo conducono sempre a rinunce anche sul terreno della lotta per uno sviluppo democratico conseguente”.
La ripulsa di ogni ipotesi di “alternativa socialdemocratica”, del resto, fu la premessa della politica del compromesso storico, concepita da Berlinguer tenendo ben presente la lezione di Franco Rodano, a sua volta attento a tenere la barra al centro fra “i due indirizzi contrapposti – ‘di destra’ e ‘di sinistra’- che discendono da una valutazione minimalistica della forza, delle possibilità e del potere odierni della classe operaia e del PCI”. Rodano e Berlinguer, invece, ragionavano a partire da una valutazione opposta, fino a considerare la compattezza “centrista” del PCI un bene in sé, e ad assegnarle un ruolo decisivo non solo per la stabilizzazione politica interna, ma anche per quella internazionale.
Per Biagio de Giovanni “il quadro internazionale non fu letto in evoluzione, ma nella sua staticità”, tanto che “DC e PCI pensavano, ideologicamente, a una stabilizzazione del bipolarismo e a una democratizzazione dell’URSS”,
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per cui “il tentativo di stabilizzazione del compromesso storico pretendeva di rafforzare e rimotivare il vecchio equilibrio, quando intorno tutto cambiava”. È ben vero che nella sua breve sperimentazione politica, favorita dal risultato elettorale del 1976, e finita col risultato elettorale del 1979, il compromesso storico consentì al PCI anche di mettere alla prova la propria cultura di governo, e per questo venne apprezzato dalla “destra” interna. Ma sul piano della finanza pubblica il risultato di quell’esperimento è stato severamente valutato da molti, fra cui Salvati. Mentre sul piano politico vale l’invettiva di Claudio Petruccioli contro il gruppo dirigente di allora: “Si trovarono a disposizione una grandissima forza e circostanze favorevoli. Si impegnarono nel compromesso storico e nella solidarietà nazionale. Ma ne vissero l’esperienza come l’applicazione di uno schema definito trent’anni prima, piuttosto che come occasione di profondo rinnovamento. Gli italiani ebbero la sensazione che più il PCI diveniva forte, più l’alternativa si allontanava”.
Il craxismo
Per questo, ed anche per l’opportunismo con cui l’esperimento venne gestito dalla DC, il compromesso storico determinò, più che una stabilizzazione, un definitivo blocco del sistema politico. Ed è in questo contesto che nasce il craxismo, che è la continuazione con altri mezzi dell’esercizio del ruolo sistemico del PSI. Secondo Gianfranco Pasquino il rovesciamento operato da Craxi della tendenza seguita “un po’ impoliticamente” da Nenni e Lombardi, i quali avevano “sempre anteposto le preoccupazioni per il funzionamento e l’evoluzione del sistema politico a quelle relative ai vantaggi del partito”, nasce dalla consapevolezza che “senza ambizioni partigiane il PSI condanna sé stesso a un ruolo subalterno che è altresì nocivo per tutto il sistema”. Craxi, del resto, proprio nel 1982, al culmine del processo di rinnovamento del suo partito, lancerà un ultimo appello al sistema politico perché sia possibile formare “o un vero centro-sinistra o una vera alternativa”. Ma l’appello cade nel vuoto, per cui non resta che l’iniziativa partigiana, che si articola su tre fronti: quello della rivendicazione identitaria, quello della riforma del sistema politico e quello del franco esercizio della leadership.
L’identità del PSI non può essere, sic et simpliciter, quella della socialdemocrazia europea. Lo impedisce il ruolo minoritario effettivamente svolto. E lo sconsiglia l’opportunità di valorizzare il felice meticciato che nel PSI si è realizzato, e che si estende ormai anche alla cultura cattolico-sociale di Labor e di Carniti. Perciò il PSI approda prima di altri partiti socialisti al socialismo liberale, che si esprime pienamente con il discorso di Martelli alla conferenza di Rimini del 1982, con il quale il PSI si pone oltre “la pietrificata sociologia delle classi ereditata dal marxismo”, scarta “il compito di produrre una rivoluzione che non c’è” invece “di rappresentare politicamente e di governare con l’efficienza della politica democratica la rivoluzione che è in atto”, e propone l’alleanza fra “le donne e gli uomini di merito, di talento, di capacità” e “le donne e gli uomini immersi nel bisogno”: i primi “sono persone utili a sé e agli altri“, che “progrediscono e fanno progredire l’intera società con il loro lavoro, con la loro immaginazione, con la loro creatività, con il produrre più conoscenze”, e sono quindi “coloro che possono agire”; mentre i secondi “sono le persone che non sono poste in grado di essere utili a sé e agli altri, coloro che sono emarginati o dal lavoro, o dalla conoscenza o dagli affetti o dalla salute”, e quindi “devono agire”.
Come avrebbe scritto anni dopo Benzoni, insomma, “se proprio di ‘rivoluzione’ si doveva continuare a parlare questa non era la modifica radicale, il superamento dell’ordine esistente attraverso l’azione cosciente della politica, quanto piuttosto l’evoluzione spontanea e multiforme della società che si trattava di capire e sostenere. In altre parole il ‘reale’ non era un disordine potenzialmente catastrofico da trasformare con l’azione di una superiore razionalità di pochi. Ma un processo per definizione razionale che si doveva in primo luogo capire e poi favorire e, se del caso, orientare”. Quanto agli altri due fronti, essi, a ben vedere, erano schierati entrambi contro il doroteismo. Quello della riforma del sistema politico era stato aperto da Amato fin dal 1977 in polemica con il “modello spartitorio” con cui egli aveva identificato la prassi dorotea nel governo dell’economia. Quello dell’esercizio della leadership, che ebbe la sua massima enfasi, ovviamente, fra il 1983 e il 1987, si contrapponeva alla prassi del “governo ai margini” che secondo Scoppola la DC aveva inaugurato dopo la sconfitta elettorale del 1953, e che a partire dal 1959 era stato il fondamento dell’egemonia dorotea sul partito di maggioranza.
In questa chiave, del resto, vanno letti anche gli effetti collaterali che questa strategia determinava nella sinistra, e che erano tanto più devastanti quanto più il PCI si era a sua volta collocato in seno al sistema ad egemonia dorotea, in parlamento con l’assemblearismo e nella politica di governo col consociativismo e l’esercizio del diritto di veto nei conflitti sociali.
Il passato recente del riformismo italiano: la crisi di sistema
Il passato recente, secondo la datazione in uso, coincide con la “rivoluzione” del 1992 e con l’estinzione della DC e del PSI. Ma più correttamente il termine a quo va fissato nel 1987. È allora, infatti, che si manifesta una crisi di governabilità che ha già tutti i segni della crisi di sistema. Lo dimostrano anche le forme: le dimissioni del governo Craxi che non sanzionano una cattiva performance governativa ma il rispetto del patto partitocratrico della “staffetta”; la costituzione del governo Fanfani che ha il solo compito di impedire a Craxi di gestire le elezioni (cioè di sottoporre i risultati del suo governo al giudizio degli elettori), e che peraltro in Parlamento si vede paradossalmente negare la fiducia dalla DC. E lo dimostrano anche i sondaggi di allora, che, come ha documentato Gianni Statera, registrano contestualmente la grande popolarità di Craxi e la scarsissima popolarità del pentapartito.
All’incombente entropia della partitocrazia, del resto, fanno riscontro in quel quinquennio altri fenomeni che pure indicano la crisi della costituzione materiale. Nello scenario interno insorge innanzitutto una “questione settentrionale”, che si manifesta in termini di protesta fiscale specialmente dopo l’approvazione della riforma Visentini; Sylos Labini avverte che già nel 1983 il ceto medio urbano ha superato in quantità la classe operaia, ed il PCI se ne accorge in diretta col referendum sulla scala mobile; la revisione del Concordato modifica i termini del rapporto fra Stato e Chiesa, favorendo l’autonomo protagonismo della CEI a prescindere sia dalla Santa Sede che dalla DC. Ma non bisogna neanche sottovalutare gli effetti della trasformazione del sistema dei media, che per Alberto Abruzzese determina “la distruzione del legame razionale e preordinato, contrattato e legittimato, tra macchina del potere costituito e apparati dell’informazione”; né quelli che ne conseguono rispetto alla politicizzazione dei poteri neutri, e innanzitutto della magistratura, che secondo Stella Righettini “tende a risolversi in un conflitto, piuttosto che in un’alleanza tra èlites”, come invece era prima. Se a questo si aggiunge che “mentre i poteri ‘neutri’ si politicizzano” secondo Roberto Racinaro “la politica si neutralizza”, in quanto “non attiene più – almeno in apparenza- al campo della decisione”, ma “provvede a portare a compimento ciò che non si può fare a meno di fare”, si capisce perchè l’esposizione della politica alla giurisdizione diventa massima. Quanto allo scenario internazionale, se la fine dell’URSS libera il sistema politico da alcuni vincoli (soprattutto il “fattore K”), il trattato di Maastricht nel 1991 gliene impone di nuovi e micidiali, se si pensa al peso dell’industria pubblica e all’entità del debito, che proprio nel 1990 aveva superato quella del PIL. Le conseguenze verranno tutte al pettine nel 1992, quando i vincoli più recenti determineranno la crisi monetaria e l’avvio di una serie di privatizzazioni piuttosto caotica, mentre il dissolversi dei vincoli più antichi non darà luogo a una migliore governabilità.
Il PCI e la riforma del sistema politico
Ma già dal 1987 i tre partiti maggiori non governano la crisi. La DC non recupera il proprio potere di coalizione, ed alterna quattro governi in cinque anni. Il PSI pensa di poter curare il cancro con l’aspirina del CAF. Quanto al PCI, Occhetto chiude la pagina del comunismo senza aprirne nessun’altra. Salvo scoprire, fin dal 1987, le virtù mimetiche della riforma elettorale. È allora, infatti, che secondo Andrea Romano si convince che, “mescolando il nuovo della riforma elettorale con il vecchio dell’identità comunista” si può evitare “a tutto il partito di ripensare la propria ragion d’essere” ed eludere il problema di “cosa fare dell’Italia, o meglio cosa fare del PCI nel governo dell’Italia”, limitandosi invece a “rimodellare le regole e le istituzioni del paese per permettere al PCI di entrare con la sua integrità identitaria nel vero gioco elettorale”. Un’integrità identitaria, c’è da aggiungere, che finché è possibile verrà orgogliosamente tutelata anche nel nome, cambiato un po’ precipitosamente solo dopo la caduta del Muro nel 1989, con una “svolta” che è piuttosto un’inversione ad “U” rispetto alla tradizione del movimento operaio, ma che non per questo aiuta a decifrare i limiti di questa tradizione ed a valorizzarne le residue potenzialità.
Il messaggio di Cossiga
Solo Cossiga, col messaggio alle Camere del 1991, intuisce lo spessore costituzionale della crisi, ma viene isolato dalla DC, aggredito dal PDS, ignorato dal PSI. Eppure si tratta di un messaggio di alto profilo, che riletto oggi rivela una profonda consapevolezza dei rischi della situazione. Cossiga osservava che “a differenza di quanto accade nelle altre democrazie industriali, il sistema dei partiti operante in Italia ha manifestato la tendenza a trasformarsi da strumento di intermediazione tra società politica e società civile, così come prevede l’articolo 49 della nostra Costituzione, in un complesso e chiuso apparato di raccolta e ‘difesa’ del consenso, come titolo per una articolata e spesso assai impropria gestione del potere ad ogni livello”, tanto da determinare una “avversione verso uno ‘Stato dei partiti’, inteso come Stato in cui i partiti sono non organizzazioni di consenso per la vita delle istituzioni, ma piuttosto di dominio sulla vita della società”. Denunciava quindi il rischio che, “insieme ad una crescente disaffezione dal nostro sistema di governo” si concretizzi “il grave pericolo che questo malessere si esprima, presto o tardi, in un comune sentimento di non accettazione dei principi di ‘legittimità’ che prima ancora di quelli di ‘legalità’ sono il fondamento reale dell’osservanza della legge e dell’autorità dello Stato”.
Per Cossiga la crisi istituzionale, da attribuire “all’instabilità ed all’inefficienza del sistema, ad una carenza decisionale, in una parola, ad una sorta di paralisi o di asfissia che sembra minacciare l’intero apparato istituzionale”, si intrecciava con la crisi politica, perché “molte delle disfunzioni del nostro sistema politico, e la stessa causa principale del non elevato livello della morale pubblica e di quella privata dei governanti, sono attribuite al fatto che la nostra è stata, per quasi quarant’anni, una democrazia bloccata, e cioè una democrazia senza alternative di fondo fra Governo e opposizione”. Perciò il messaggio avrebbe dovuto contenere altre undici righe, con le quali si auspicava un governo di grande coalizione che vanificasse la conventio ad excludendum nei confronti del PDS, e che vennero cassate per ottenere la controfirma, se non del presidente Andreotti, almeno del guardasigilli Martelli. E proponeva un più diretto intervento del popolo nella riforma istituzionale, dubitando della capacità del “potere costituito” di farsi “potere costituente”, come pretendevano – e continuano a pretendere – i più rigidi interpreti dell’articolo 138 della Costituzione.
La legge di Tocqueville
Su proposta di Bassanini la discussione di merito su quel messaggio venne rinviata alla legislatura successiva, che avrebbe dovuto essere appunto una legislatura “costituente”. Ma non venne raccolto neanche il suggerimento politico del Capo dello Stato, perché, come poi dirà lui stesso, “in pieno travaglio postcomunista, il PCI si spaventò”, mentre “Craxi, impaniato nel CAF, vede più rischi per il PSI che vantaggi da un PCI liberato dal fattore K”. In realtà nel 1992 il sistema politico è già morto. Fatica ad eleggere un presidente della Repubblica.Fallisce, con De Mita, l’obiettivo di salvare capra e cavoli combattendo su due fronti, quello costituzionale aperto da Cossiga e quello elettorale aperto da Segni. E fallisce, con Amato, l’obiettivo di governare la transizione. Amato, secondo Benzoni, mentre affrontava la crisi finanziaria con una manovra “tutta nel segno del nuovo”, perseguiva una gestione della crisi politica “a sostegno non tanto del vecchio, quanto di una transizione, nella misura del possibile, non traumatica”.
Egli quindi perseguiva “un programma di risanamento economico e di revisione istituzionale concordato, in qualche modo, tra le varie forze politiche”, “un’ipotesi di riforma istituzionale non limitata alla legge elettorale (per il Parlamento e gli enti locali) ma estesa anche ad una prima ridefinizione” della forma di governo,e “una soluzione politica tale da consentire una rapida e soddisfacente celebrazione dei processi di Tangentopoli”.
L’ultimo obiettivo lo avrebbe mancato in proprio. Il secondo lo aveva già mancato De Mita. Il primo, però, avrebbe potuto essere ancora perseguito, e per questo, in fondo, egli aveva favorito la successione di Ciampi, che da un lato avrebbe tenuto dritta la barra del risanamento, e dall’altro poteva godere di un consenso politico-parlamentare più ampio. Ma il definitivo disimpegno del PDS rendeva irrealistico qualsiasi tentativo di governare la transizione, e fece sì che la legislatura rotolasse verso la sua fine, approvando frettolosamente la nuova legge elettorale, e negando al governo Ciampi prima tre ministri, poi perfino l’occasione di un dibattito parlamentare sulle sue dimissioni, che sarebbero state formalizzate il 13 gennaio 1994.
Quanto a De Mita, il suo ultimo colpo di coda è il veto all’introduzione
del sistema elettorale francese (benché su di esso
si profilasse una convergenza fra PDS e PSI), e l’invenzione
del sistema “misto e italiano” della legge Mattarella, concepita
innanzitutto per tutelare la sopravvivenza della DC nell’Italia
del Sud in uno schema immaginario in cui la Lega avrebbe
dominato l’Italia del Nord e il PDS quella centrale. Occhetto,
d’altra parte, la subisce perché ha fretta di incassare un
successo elettorale che realizzi in Italia “un’unione della
sinistra su basi inversamente simmetriche a quelle che l’hanno
portata al potere in Francia”, come gli consiglia Maurice Duverger
sul Corriere della sera del 4 gennaio 1993. Duverger
gli consiglia anche di abbandonare il disegno della riforma
costituzionale, considerata nient’altro che un espediente
dilatorio del “vecchio” contro il “nuovo”. E di fatto il consiglio
del politologo francese viene seguito puntigliosamente sia dal
“vecchio” in articulo mortis che dal “nuovo” che avanza, e
che si cimenta con l’esperimento inedito di formare un sistema
politico prescindendo dalle coordinate costituzionali, fino a
dar vita a partiti che non a caso nel 1996 si sarebbero dimostrati
incapaci di riaprire un processo costituente. Mauro Calise
indica la strada che di solito imbocca “un processo costituente
sfuggito di mano ai partiti”, che è quella “delle costituzioni
oligarchiche”. Ed ammonisce che, anche se “quando si parla
di una costituzione senza partiti” si mitizza “un’età dell’oro in
cui le istituzioni – il governo, il parlamento, la magistraturaerano
libere da interferenze di parte, scevre da occupazioni
partitiche”, ci si dimentica che esse agivano non “in quanto
grandi istituzioni universalistiche, bensì in quanto corpi particolari”,
che “molto prima di riconoscersi nella grande missione
universalistica prevalsa nell’età democratica, erano cresciuti
puntando in primo luogo alla propria riproduzione particolaristica”.
È in questo scenario che entra in vigore la “legge di
Tocqueville”, rievocata da Luciano Cafagna nel 1994: “Per
un cattivo governo il momento più pericoloso è sempre quello
in cui esso comincia a riformarsi. Il male sopportato pazientemente
come inevitabile diviene intollerabile non appena si
concepisca l’idea di liberarsene”. Nell’inconcludenza della
politica, infatti, “politologi ed editorialisti iniziarono una lunga
esercitazione all’aperto, nel corso della quale si venne formando
una squadra agguerrita di teste di cuoio dell’ingegneria istituzionale.
L’esercitazione si svolgeva al cospetto di un’opinione
pubblica che seguiva con occhi sbarrati, per lo più senza raccapezzarsi,
ma cominciava a capire una cosa, e una cosa sola:
che la prima Repubblica doveva essere mandata nei secchi
della nettezza urbana”.
Elogio del Mattarellum
Da parte sua Calise ricorda l’esibizione di “una straordinaria
varietà di modelli, di più o meno sofisticata ingegneria
istituzionale, sempre fondati su qualche demiurgica legge
elettorale”, per cui “il futuro del paese è stato presentato
come diretta conseguenza di una clausola di sbarramento,
di un doppio turno a ballottaggio flessibile, di un mono
turno con scheda doppia”, insomma di “un modellino
formale capace di consegnare a un paese il suo futuro, con
tanto di corredo bibliografico e citazioni d’importazione”,
fino a legittimare “l’idea che una svolta importante, addirittura
una rivoluzione politica, possa essere ottenuta solo
cambiando le regole del gioco”, e il principio per cui “nessuno
dei giocatori, dei milioni di cittadini che ogni giorno
giocano con la democrazia, sia chiamato a pagare un
prezzo”, consentendo così “a milioni di italiani di liberarsi
del proprio passato depositando nell’urna, a costo zero,
una scheda sacrificale”.
Augusto Barbera, che si era astenuto sul compromesso De
Mita-Occhetto da cui era nato il Mattarellum , anni dopo,
pur riconoscendo che la legge “ha dimostrato di funzionare”
perché con essa “si è faticosamente determinata una bipolarizzazione
del sistema politico” e “si sono avviati processi
di alternanza”, non si nasconde i limiti del processo allora
avviato, individuati nella “accesa competizione infracoalizionale
a destra come a sinistra”, nel fatto che “la scelta dei
governi, pur affidata agli elettori, ha dovuto subire i contraccolpi
delle manovre assembleari”, nei difetti nella “selezione
del ceto politico, troppo spesso paracadutato nei
collegi”, ed infine nel “clima politico di reciproca delegittimazione”.
Oggi si può aggiungere, meno diplomaticamente,
che il bipolarismo coatto indotto dalla nuova legge elettorale
non ha funzionato né per assicurare una democrazia competitiva,
né una democrazia governante, se è vero come è vero
che la prima legislatura bipolare ha dato luogo ad un
ribaltone e ad un governo istituzionale, nella seconda si è
registrato un tasso di trasformismo che avrebbe fatto sognare
Depretis, mentre nella terza si è verificata l’impotenza delle
maggioranze bulgare. Per cui se nella quarta sunt lacrimae
rerum la responsabilità non può essere attribuita solo alla
pessima legge Calderoli. L’unica cosa che ha funzionato,
del Mattarellum, è stata effettivamente l’alternanza. Ma si è
trattato di un’alternanza a somma zero, salvo che per lo
spoil system ai piani bassi e le velleità di riforme costituzionali
partisan ai piani alti.
Nascita di una Repubblica
La seconda Repubblica nasce così, col deposito di una scheda
sacrificale a costo zero e senza neanche l’onore di un epicedio
parlamentare della prima. Del resto il tema era stato eluso
anche l’anno precedente, quando Amato, motivando alla
Camera le sue dimissioni, aveva preso atto di “un autentico
cambiamento di regime, che fa morire dopo settant’anni quel
modello di partito-Stato introdotto in Italia dal fascismo e che
la Repubblica aveva finito per ereditare limitandosi a trasformare
il singolare in plurale”. Perfino Bobbio, allora, aveva perso
lucidità, fino a deplorare di aver “dovuto ascoltare dalla bocca
del presidente del Consiglio il giudizio storico più antirepubblicano
che possa mai essere pronunciato, quasi che la nostra
Repubblica fosse la continuazione del fascismo”. E la sua
nobile retorica repubblicana consentì a tutti di evitare una riflessione
adeguata sulla fine della partitocrazia.
Il nuovo sistema politico, quindi, è nato piuttosto dalla conseguenza
un po’ casuale della nuova legge elettorale che non dà
un approfondimento critico dei motivi della crisi di sistema.
“Noi ci troveremo di fronte ad un Parlamento in cui avremo
moltiplicato il sistema per scissione: avremo tronconi rispetto
ai vecchi partiti, ma sicurissimamente ognuno portando in sé
tutte le caratteristiche dei partiti quali li abbiamo conosciuti”,
aveva profetizzato Marco Pannella nel novembre del 1993, in
un dibattito fuori tempo massimo in seno alla Bicamerale
Iotti. Con l’intuito politico confermava quello che aveva
subito osservato Sartori con la sua competenza scientifica, e
cioè che il turno unico avrebbe incentivato il potere di ricatto
delle forze minori, e conseguentemente favorito la frammentazione.
Nessuno, invece, aveva previsto la principale novità
cui avrebbe dato luogo la nuova legge elettorale. Ernesto
Galli della Loggia, per la verità, già nel maggio di quello
stesso anno aveva osservato che con la legge Mattarella,
ancorché per eterogenesi dei fini, sarebbe finito “un sistema
affatto sbilenco, senza destra o centrodestra, senza cioè una
rappresentanza propria e diretta della parte moderata e conservatrice
del paese”, in cui, “grazie al ricatto dell’anticomunismo
l’elettorato di tale orientamento (milioni di voti) è stato convogliato
forzatamente al centro”. Ma neanche lui aveva previsto
che la DC avrebbe rinunciato a farsene interprete, e avrebbe
lasciato campo libero al protopopulismo di un imprenditore di
successo. Marco Follini osserverà poi che “il nuovo schema
offriva alla DC la possibilità di riconvertirsi nel polo moderato”,
mentre invece “la nuova identità del cattolicesimo politico
italiano spingeva in direzione opposta, verso un popolarismo
con connotazioni sociali più marcate”. In realtà, “un po’ per
convinzione, un po’ per abitudine il bipolarismo era diventato,
per i democristiani, un destino astratto” negli anni in cui
Segni promuoveva il referendum “davanti a una gigantografia
di Sturzo e in mezzo a deputati, amministratori e militanti del
suo partito”. Era perciò immaginabile che i democristiani, che
“avevano sperimentato il bipolarismo virtuale”, avrebbero
realizzato “il bipolarismo reale, quando fosse stato possibile,
anche a costo di modificare alcune componenti della propria
alchimia”, invece di finire impaniati nel “conflitto fra l’identità
e il ruolo”. Un conflitto, si può aggiungere ora, che per essere
risolto con la formazione del partito democratico dovrebbe
essere elaborato con maggiore approfondimento da parte di
chi ne è stato protagonista.
L’epifania di Forza Italia
Del resto la “divina sorpresa” rappresentata dalla vittoria elettorale
di Berlusconi a sua volta non fu oggetto di riflessione
da parte delle forze soccombenti, di centro o di sinistra che
fossero. Venne frettolosamente catalogato come un episodio
di plutocrazia (dai più rètro) o di telecrazia (dai più aggiornati).
In particolare si eluse il problema posto dai milioni di elettori
democristiani e socialisti che avevano cambiato di campo, e
che presumibilmente non erano tutti clienti, percettori di
tangenti o, nella migliore delle ipotesi, militanti risentiti. Si
presero invece per buone le non irresistibili motivazioni di
qualche colonnello all’inseguimento delle proprie truppe (lasciando
senza replica, per esempio, gli scritti paradossali di
Fabrizio Cicchitto impegnato a stabilire una continuità “da
Turati a Craxi, a Berlusconi”).
Quanto alla plutocrazia e alla telecrazia, ovviamente un ruolo
lo giocarono. Ma non nei termini semplicistici di cui si parlò
allora. Calise, per esempio, non sottovaluta il peso del “partito-
azienda”, e cioè della “solidità del retroterra aziendale e
manageriale che ha consentito al partito di Berlusconi una
straordinaria penetrazione territoriale in tempi brevissimi”.
Ma non si nasconde dietro questo dito. E non si nasconde
neanche dietro il dito del ruolo mediatico di Fininvest. Rileva
invece che nello scenario semplificato dalla sfida referendaria
c’è ampio spazio per la formazione di un vasto e compatto
“partito dei media”, la cui “ideologia”, che ovviamente non
può prescindere dagli “imperativi della comunicazione politica”,
accentua il carattere binario della scelta proposta agli elettori,
che “deve produrre un vincitore e un vinto”, e “promette la
soluzione della crisi sulla base di una semplice combinazione:
una legge elettorale maggioritaria e un uomo forte fuori dai
partiti”. Ma mentre “nelle intenzioni della gran parte degli
opinion makers” questo “era l’identikit di Mario Segni”,
invece “la solita eterogenesi dei fini – o ironia della storia ha
voluto che l’identikit si adattasse anche a Silvio Berlusconi”.
È appena il caso di sottolineare che il “partito dei media” non
è il braccio armato della telecrazia, e subisce anzi la leadership
della carta stampata. Tanto che, per esempio, perfino Federico
Orlando, sul Giornale diretto ancora da Montanelli, il 26
febbraio 1993 aveva invitato il demiurgo di cui auspicava
l’avvento a “cercarsi i ministri nelle università, nelle imprese,
nelle professioni, non come ‘tecnici’, ma come portatori di
una cultura e di una moralità del lavoro diversa da quella dei
senza-mestiere che hanno formato la classe politica della
prima repubblica”. E tutto si poteva dire di Berlusconi, tranne
che fosse un “senza-mestiere”. Così come è il caso di osservare
che chi a sua volta godeva di una macchina organizzativa
capace di “una straordinaria penetrazione territoriale” aveva
scelto, nel frattempo, di sostituirla con la carovana, e si era
prestato ad interpretare il ruolo del vinto nel copione allestito
dai media.
Prove tecniche di partito democratico
Dopo l’insuccesso del 1994, quindi, la resistenza dei soccombenti
non poteva più raccogliersi sotto l’insegna del Nuovo,
saldamente impugnata da Berlusconi. Dovette rivalutare in
qualche modo il Vecchio, rivalutandone, se non la simbologia,
almeno la metodologia. Frutto della vecchia metodologia fu
innanzitutto l’approdo del PDS dalla gioiosa confusione della
carovana al geometrico rigore del centro-sinistra, portato alla
vittoria nel 1996 sotto la guida non casuale (e non partenogenetica)
di Romano Prodi. D’Alema fece del proprio meglio
per fingere che accanto alla Quercia svettassero altre piante
d’alto fusto, e non soltanto cespugli tanto esili quanto numerosi,
come nel frattempo segnalava Galli della Loggia. Ma i cespugli,
per quanto esili, avevano trovato un ottimo habitat nel sistema
bipolare, e se non crescevano resistevano però alla grande.
Erano i “tronconi” di cui aveva parlato Pannella, i partiti ricattatori
di cui aveva parlato Sartori. E la path dependence, al
centro e a sinistra, non solo non si interrompeva, ma assumeva
addirittura carattere regressivo. Non a caso ora l’estrema
sinistra, che negli anni ’70 si era nutrita di buone letture sulla
crisi fiscale dello Stato, si attesta a difendere il Welfare socialdemocratico
come l’Armata rossa aveva difeso Stalingrado.
Né per caso i titolari della ditta socialista, eredi di uno statista
esecrato per quasi tutto, ma non per la stipula del nuovo Concordato,
ora ricominciano ad indossare cravatte alla Lavallière
e riscoprono la cultura politica di Podrecca (anche se finora
hanno evitato di sfidare Dio a dimostrare la propria esistenza,
come fece un antico direttore dell’Avanti!). E perfino nel
mondo cattolico, benché attraverso percorsi meno banali,
rispunta l’intransigentismo. Ma di path dependence hanno
sofferto anche le iniziative politiche che potremmo definire
“prove tecniche di partito democratico”. A cominciare da
quella che, benché avviata per contraddire la prospettiva del
partito democratico, si è poi paradossalmente risolta nella formazione
di una specie di partito democratico male assortito.
Mi riferisco al processo attraverso cui si è passati dal PDS ai
DS, e che invece avrebbe dovuto portare, nelle intenzioni del
promotore, alla creazione di un partito socialdemocratico a
vocazione maggioritaria. In questo caso, per la verità, la dipendenza
è più modesta, ed è quella che si crea fra “compagni
di scuola”, come direbbe Andrea Romano. E come disse
allora Emanuele Macaluso, per il quale “una delle ragioni per
cui il processo di aggregazione di un’area più vasta della
sinistra italiana con il PDS trova serie difficoltà (a sinistra e a
destra)” era “da ricercare proprio nel fatto che le diversità politico-
culturali presenti in quel partito non hanno una visibilità
tale da attrarre forze affini che sono oltre i confini del PDS”,
perché questo mantiene “un corpo di dirigenti al centro e in
periferia con un modo di pensare e di agire che segnala una
continuità non nella politica, ma nella concezione del partito”.
Diversa per genesi, ma simile per risultato, è stata la “prova
tecnica” messa in opera dalla Margherita. L’epidemia di Alzheimer
che ormai imperversa nella cultura politica italiana ha
rimosso le tappe del processo formativo di questo partito.
Sommariamente si può provare a ripercorrerle: nel 1995 la secessione
di Buttiglione dal PPI in seguito all’agnizione di
Prodi come leader di un centro-sinistra non ancora costituito e
contrattato; nel 1996 l’invenzione dell’Ulivo come simbolo
unitario nei collegi uninominali e la cespuglizzazione del PPI
nel proporzionale; nel 1998 la sortita degli “straccioni di
Valmy” messi insieme da Cossiga e l’adesione di Forza Italia
al PPE; nel 1999 la fondazione dei Democratici, la cui sfida
(competition is competition) non viene apprezzata dagli elettori;
nel 2000 la designazione di Rutelli alla leadership del centrosinistra
e successivamente la creazione della Margherita “federale”;
infine, la costituzione del partito vero e proprio nel
2002.
Non è esattamente una serie di successi. Ma non è neanche
l’itinerario attraverso cui, generalmente, si formano una
cultura politica e un gruppo dirigente. Si può anzi sostenere
che, se la “prova tecnica” del PDS è fallita per ipertrofia
dell’ego, quella della Margherita è fallita per il motivo
opposto. Anche per questo, probabilmente, le impennate identitarie
di questo partito sono state più efficaci per fissare
paletti nel dibattito interno all’area dei promotori del partito
democratico che non nel confronto con l’opinione pubblica e
col sistema politico.
Non a caso la principale, quella relativa alla ripulsa dell’adesione
al PSE, viene declinata soltanto in negativo, talvolta con argomenti
presi a prestito in casa Cupiello, e comunque elude,
come già accennato, la questione centrale, che è quella di
come superare il modello sociale europeo del Novecento, che
pure in Italia è stato realizzato più dai democristiani che dai
socialisti e dai comunisti. Per cui, fra l’altro, la Margherita risparmia
non solo a sé stessa, ma anche ai DS, di confrontarsi
con la prospettiva del socialismo liberale, quella di Blair e di
Zapatero, e riduce il dibattito sulla collocazione del partito
democratico in seno al sistema politico europeo alla dimensione
burocratica degli Schultz e dei Rasmussen. Altrettanto si può
dire per la questione cattolica, brandita inizialmente contro gli
alleati all’epoca della legge sulla fecondazione assistita, e poi
diventata addirittura, con la formazione della corrente teodem,
occasione di confronto interno. Oggi si può verificare quanto
questo approccio abbia creato più problemi che soluzioni,
come peraltro avevano probabilmente intuito i sessanta “cattolici
democratici” che hanno colto la questione della legge sulle
unioni di fatto per segnalare la loro esistenza. Essi però
avrebbero offerto un contributo ancora più rilevante se avessero
sviluppato una franca riflessione sulla fine del cattolicesimo
politico e sui nuovi termini del confronto fra sistema politico
e presenza pubblica della Chiesa, anche per evitare una fatica
inutile a un caro amico come Savino Pezzotta: non quella, si
intende, di tentare di dar vita a un movimento, ma quella di
dover preventivamente prendere le distanze dal partito democratico
per annunciarlo.
L’illuminazione di Salvati
Con questi precedenti non stupisce che nel 2002 Michele
Salvati, nel prospettare l’esigenza di dar vita al partito democratico,
abbia innanzitutto proposto di resettare accuratamente
il pregresso. È difficile, infatti, che da due prove tecniche
fallite nasca una macchina efficiente. Tanto più se i meccanici
sono gli stessi. Ma la provocazione di Salvati merita di essere
raccolta anche per un altro motivo. In pieno girotondo antiberlusconiano,
infatti, egli ha avuto il coraggio di proporre la
creazione di “un soggetto politico di grande forza ideologica
e culturale” che sia “il ‘dirimpettaio’ di Forza Italia”, attraverso
“una sintesi coerente delle grandi tradizioni riformistiche italiane”.
Sono parole ripetute tante volte da essere purtroppo
diventate un mantra che scivola come l’acqua, e che finisce in
gloria col catalogo delle culture riformiste: “quelle aventi
come matrice il socialismo e il movimento operaio”; “quelle
cattolico-popolari (assolutamente essenziali nella miscela)”;
“quelle laico-repubblicane”; “forse” (e sottolineo il forse)
“quelle ambientalistiche”. Ho troppa stima di Salvati per
pensare che egli abbia dato più importanza agli ingredienti
che alla ricetta. Ed ho troppa stima della buona cucina per
pensare che mescolando gli ingredienti alla rinfusa venga
fuori qualcosa di commestibile. Perciò mi permetto di porre
l’enfasi, piuttosto che sul gloria finale, sull’antifona che lo
precede. E di sottolineare che in essa si parla di una sintesi coerente
e di un soggetto politico, auspicabilmente dotato di autonoma
forza ideologica e culturale. Se ho capito l’antifona,
fra l’altro, può darsi che la mia relazione non risulti fuori bersaglio,
neanche nel denunciare che in questi cinque anni la
cultura politica di DS e Margherita non ha raggiunto quel
grado di coerenza capace di dare soggettività politica al partito
democratico.
Salvati parla anche del nuovo partito come “dirimpettaio” di
Forza Italia. È un’espressione che può essere interpretata in
due modi: quello, statico, del fronteggiarsi; e quello, dinamico,
dello sfidarsi. Finora, per la verità, non ci si è neanche fronteggiati,
dal momento che non c’è match fra la leadership
esercitata da Forza Italia sulla Casa delle libertà e quella
esercitata dal partito democratico sull’Unione. Ma ammesso
che prima o poi sia possibile, è poi utile fronteggiarsi? Ci si
può chiedere se invece non sia più utile, innanzitutto per il
paese, sfidarsi a tutto campo, proponendosi non solo di interpretare
al meglio il mainstream, come forse ha fatto Berlusconi,
ma di rispondere alla domanda di identità e di sicurezza che
nasce dalle paure e dalle speranze degli italiani, per parafrasare
il titolo del saggio di Di Nolfo sul dopoguerra. In questo caso,
però, per essere il “dirimpettaio” di Forza Italia bisognerebbe
non rinunciare pregiudizialmente ad essere un “partito pigliatutto”,
tenendo conto, peraltro, che oggi, a differenza del
passato, questo non significa essere un partito doroteo, ma al
contrario un partito con una cultura politica forte, come hanno
dimostrato ora Sarkozy, ieri Blair, l’altro ieri la Thatcher. E
che, se su questo, in fondo, Berlusconi ha fallito, su questo
vale la pena di batterlo.
Il dio bipolare
Mi rendo conto che parlando di “partito pigliatutto” ho sfiorato
il politically uncorrect. Ma sono convinto, come ho cercato di
dimostrare finora, che quella sintesi coerente che Salvati auspicava
ispirasse il messaggio del partito democratico si possa
meglio realizzare se la coerenza si misurerà non solo con le
identità dei mittenti, ma anche e soprattutto con i bisogni del
destinatario, cioè del paese. Proprio per questo, però, azzardo
un altro passo sulla strada del politically uncorrect. Mi
permetto, cioè, di mettere in discussione quello che Marco
Follini, sul Riformista del 14 giugno, ha definito “il dio
bipolare che pretende il sacrificio di tante differenze”, e ad
auspicare anch’io che il partito democratico non resti “aggrappato
al centro-sinistra che c’è”, pur considerando la navigazione in
mare aperto “un’avventura rischiosa”, ancorché “sempre meno
rischiosa che lasciare le cose come sono”.
Lo esigono ragioni di grammatica e ragioni di sintassi. La
grammatica elementare, infatti, fatica a comprendere perché
chi si propone di fondare un nuovo partito, e quindi è evidentemente
insoddisfatto dell’assetto attuale del sistema politico,
non osi immaginare di oltrepassarne le colonne d’Ercole. Ma
ormai rende evidente anche quello che aveva già intuito nel
1994 Ralph Dahrendorf, il quale, in un articolo pubblicato in
Italia dal Corriere della sera il 3 settembre aveva osservato che
in Europa “la democrazia dell’alternanza in pratica sembra
non funzionare più come una volta”. Per Dahrendorf la constatazione
era innanzitutto un corollario delle sue tesi sulla fine
del “secolo socialdemocratico”: nel senso che era innanzitutto
il bipolarismo sociale a non funzionare più come cleavage
fondamentale del conflitto politico, fino a costringere i partiti
socialdemocratici a cercare consensi oltre il recinto tradizionale
del lavoro dipendente. Ma negli anni successivi si sarebbe ma/
nifestato con maggiore evidenza anche il fall out dell’impatto
della globalizzazione sugli Stati nazionali, costretti a ridefinire
la propria identità e la propria legittimazione. Se poi dall’Europa
torniamo all’Italia dobbiamo misurarci anche con un disastro
sintattico. In Italia, infatti, il bipolarismo che non aveva
funzionato era quello “imperfetto” fondato sul bipolarismo internazionale,
per cui dopo il 1989 a molti sembrò logico
recuperare finalmente il bipolarismo sociale per animare una
competizione politica che nei primi cinquant’anni di vita repubblicana
era stata fin troppo costretta nelle maglie di un
sistema centripeto. La ricetta, come è noto, non funzionò, ed
anche per questo siamo qui a discutere. Ma se si vuole scemare
la pena, ormai conviene riconoscere di esser compagni al duol.
Conviene, cioè, sprovincializzare il dibattito sul sistema
politico e sul sistema elettorale e guardare al resto d’Europa,
questa volta non per importare frettolosamente qualche altro
modello ma per riflettere su una deriva che non sembra immediatamente
reversibile. Veltroni ha commentato la travolgente
vittoria di Sarkozy come un modello di bipolarismo. Se questo
è il bipolarismo, si può essere d’accordo, e si può anche
sperare che il partito democratico abbia trovato una leadership
non fondata sull’equilibrismo, come invece ha paventato di
recente Angelo Panebianco sul Corriere. Ma è inutile nascondersi
che la facilità con cui il nuovo presidente ha potuto realizzare
il suo spoil system trasversale non solo la dice lunga sulla
fragilità dei suoi avversari, ma soprattutto dimostra che Sarkozy
ha spiazzato le culture politiche concorrenti, a destra come a
sinistra, scommettendo su una proposta politica forte, e non
lisciando il pelo all’elettorato. La sua, insomma, è stata la
vittoria della politica sull’antipolitica, di un modello politico
universalista, cioè, sui modelli particolaristici indotti da una
lettura debole della crisi europea. Qualcosa di simile, del
resto, era riuscito a Blair nel 1997. Ed anche Zapatero, per
quanto fortuito sia stato il suo successo elettorale, si è guardato
bene dal confondere l’asfaltare col governare. Può darsi, insomma,
che nella crisi europea il cleavage fondamentale sia
ora quello che discrimina l’universalismo della politica forte
dal particolarismo della politica debole, la quale peraltro si
presenta come l’alternativa più attendibile agli “universalisti”,
come ha appreso Blair nella “sua” Scozia, e come rischia di
apprendere Zapatero nel paese basco. Non si tratta, ovviamente,
di un fenomeno fisiologico, ma soltanto di uno dei sintomi
della più generale e complessa patologia che ha investito il
modello sociale europeo. Riguarda anche la destra, a cominciare
da Cameron, dagli epigoni di Aznar e dall’ultimo Chirac. Ma
riguarda soprattutto la sinistra, che nel “secolo socialdemocratico”
ha prosperato non solo quando è stata al governo, ma anche
quando si è trovata all’opposizione, perché nel contesto del
bipolarismo sociale ha potuto contare su una constituency
formata da sindacati, cooperative, banche popolari e tutto
quanto aveva accumulato il movimento operaio, dalla socialdemocrazia
guglielmina in poi.
Nel secolo post-socialdemocratico, invece, Schroeder ha inaugurato
la Neue Mitte, e a quella linea è rimasto fedele anche
rinunciando a una vittoria elettorale numerica per salvaguardare
l’autonomia politica del suo partito. E per quanto paradossale
possa sembrare si deve alla sua scelta se in Germania oggi la
Grosse Koalition vede collaborare due distinti partiti, ciascuno
con un’identità ben profilata, che domani potranno fisiologicamente
ricominciare a competere.
In Italia, invece, la piccola coalizione (piccola per consensi,
s’intende, non per numero dei partecipanti) sembra un elemento
della costituzione materiale più rigido di quella che fu la conventio
ad excludendum per la DC. Ha fatto eccezione Franco
Marini al congresso della Margherita. Ma è curioso che
riflessioni simili non abbiano trovato spazio nel congresso dei
DS, che pure stavano subendo nella carne viva la replica della
separazione fra Schroeder e Lafontaine. È probabile che la reverenza
per il “dio bipolare” serva, oltre che a ripararsi del
primitivismo delle polemiche sugli “inciuci”, a tutelare l’unico
mito fondante della seconda Repubblica, che anche per questo
si rivela frutto del parto di una gatta frettolosa. Neanche per
partorire la terza, peraltro, c’è molto tempo. E soprattutto non
si vedono le levatrici, se si eccettuano gli ingegneri elettorali,
esperti soprattutto di fecondazione in vitro, ma sempre pronti
a qualche risolutivo taglio cesareo. In questo caso, invece, è
bene seguire le regole naturali, e non solo per non indispettire
ulteriormente i teodem. Tornare, cioè, a ragionare di politica
senza paraocchi, per dare risposte adeguate alle stesse questioni
che erano sul tavolo quindici anni fa.
Quali fossero non è difficile dirlo, perché sono ancora lì,
identiche a prima: l’inefficienza dell’apparato decisionale e
l’inefficacia del sistema dei controlli.
Lo schema bipolare non le ha risolte finora in Italia e non riesce
più a risolverle nel resto d’Europa. La democrazia competitiva,
quindi, che resta l’obiettivo, deve trovare altre strade per
affermarsi. Un’ipotesi ragionevole per l’Italia sarebbe quella di
privilegiare il criterio della decisione per quanto riguarda l’esecutivo
e quello della rappresentanza per quanto riguarda il legislativo:
per usare il gergo degli ingegneri istituzionali,
privilegiare il “maggioritario di funzionamento” rispetto al
“maggioritario di composizione”. In assenza di convenzioni ad
excludendum, unico risultato positivo dell’ultimo quindicennio,
la dialettica fra governo e parlamento è anch’essa un modo per
realizzare una democrazia competitiva, come dimostra l’esperienza
di un piccolo paese al di là dell’Atlantico. E la tendenza in atto
nei piccoli paesi al di là delle Alpi (in cui, come si è detto, si
vince al centro non perché si liscia il pelo agli elettori moderati,
ma perché si offre una risposta universalistica alle paure e alle
speranze di un popolo intero) consiglia di non disprezzare il
ruolo inclusivo delle assemblee parlamentari rispetto alle pulsioni
particolaristiche che emergono nella crisi europea. Anche in
questo caso, comunque, conviene seguire le regole naturali, che
prevedono che ogni parto sia preceduto da un accoppiamento.
E solo da un corposo accoppiamento, del resto, possono essere
concepite le riforme costituzionali necessarie per legittimare un
potere decisionale che altrimenti o viene esercitato di fatto o,
più spesso, non viene esercitato affatto. Ed anche, magari, per
ridurre i “costi della politica” senza cominciare dalle “auto blu”
e cominciando, invece, da un’incisiva revisione del federalismo
modello matrioska che le quattro legislature “bipolari” ci hanno
lasciato in eredità, quello in cui ciascuna regione, dal Molise al
Veneto, contiene provincie, comuni, consorzi intercomunali, finanziarie
e società di servizi nella stessa misura e con le stesse
dimensioni. Non è facile prevedere se oggi in Italia un accoppiamento
del genere sia possibile. È facile prevedere, invece,
che ci sarà comunque qualche imbecille capace di confondere
un coito con un inciucio. Ovviamente avrà diritto anche lui a
sedere in parlamento. Magari superando una soglia di sbarramento
che può anche essere implicita, nel caso che si decidesse di
ridurre il numero dei parlamentari e di lasciare ancora una volta
in pace le povere “auto blu”. Ma rinunciando all’opportunità
costituzionalmente garantita di tenere in ostaggio una maggioranza
e un governo.
Problematiche conclusioni
Molti, anche e soprattutto qui, pensano che questi nodi possono
essere tagliati solo con la scimitarra del referendum. Personalmente
temo di vedere un film già visto, e per giunta senza
happy end. La mia opinione personale, comunque, non è un
gran problema. Un gran problema, invece, sarebbe la pretesa
di fondare un nuovo partito senza nemmeno l’ambizione di
una posizione chiara e condivisa su temi di questo genere.
Nessuna cultura politica, infatti, può prescindere da un pensiero
costituente, men che meno una cultura politica che si proponga
di guardare al futuro più che al passato. Credo quindi che possiamo
concordare tutti, referendari e no, sull’esigenza di impegnare
il partito democratico innanzitutto ad evitare il referendum,
ovviamente percorrendo la strada maestra della
riforma costituzionale e della riforma elettorale e non le scorciatoie
che pure sono state ipotizzate. E che questo debba
essere l’obiettivo prioritario, rispetto al quale, secondo la mia
opinione, diventa secondaria anche la tenuta del governo. Ma
se proprio vogliamo trovare un happy end al remake che sta
per andare sugli schermi, sarà bene non replicare gli errori del
passato recente, e non pretendere, quindi, che una riforma
istituzionale forte possa essere gestita ed implementata da
soggetti politici deboli, o addirittura di risulta. Da questo
punto di vista, non si può dire che l’opposizione condotta dal
centrosinistra nel corso della passata legislatura abbia dato un
gran contributo. Il centrosinistra, infatti, è stato sì il “dirimpettaio
di Forza Italia” e di Berlusconi, ma nel senso in cui un plotone
d’esecuzione è il dirimpettaio del condannato: posizione che
può essere anch’essa efficace a condizione che i fucili non
siano caricati a salve. Anche per questo, credo, e non per rivangare
inutilmente vecchie storie, ora siamo costretti a
cercare un po’ faticosamente nel passato i riferimenti culturali
che possono collocare, come è doveroso, il nuovo partito
nella storia dell’Italia repubblicana: né nei cinque anni di
governo, né nei cinque anni d’opposizione, infatti, il passato è
stato metabolizzato adeguatamente. Fra le vecchie storie va
collocata, come ho cercato di dimostrare, anche quella che
invece curiosamente ha a lungo tenuto il campo, e che ha
/ / 28 / /
mondoperaio 4/2022 / / / / luigi covatta / un anno
finito per essere un abusivo criterio selettivo delle forze che
hanno avviato il processo costituente del partito democratico.
Mi riferisco al giudizio sulla socialdemocrazia europea, che
può essere tranquillamente archiviato: a condizione, però, di
chiarire che in questo caso le dispute sul marxismo non
c’entrano, perché la socialdemocrazia europea del secondo
dopoguerra è nata dall’incontro fecondo fra il vecchio ceppo
socialista e correnti liberali, democratiche e cristiano-sociali
dell’Occidente, come ha ricordato Gino Giugni qualche anno
fa, e come dimenticano sia molti neosocialisti immaginari, sia
quei cattolici e quei liberali che quando proclamano di non
voler “morire socialisti” fanno un po’ la figura del borghese
immaginario che non sapeva di parlare in prosa. Invece di attardarsi
su questioni già passate in giudicato, invece, sarebbe
utile affrontare le questioni ancora vive. Innanzitutto quella
del nuovo riformismo, nei termini, per esempio, in cui la
affrontò Norberto Bobbio nel 1985, prendendo atto che
nell’epoca in cui viviamo non vale più nè l’equazione fra riformismo
e progresso, né quella fra riformismo e cambiamento.
Bobbio sostenne allora che “dove tutti sono riformisti, nessuno
è riformista”, a meno che non abbia qualche ulteriore riferimento
ideale, che egli identificava nel socialismo liberale.
Del resto è il socialismo liberale che può ispirare il socialismo
nel secolo che segue il “secolo socialdemocratico”, in cui sono
cambiati i rapporti di produzione, è cambiata la composizione
della società, si è dilatata l’interdipendenza fra le nazioni, si è
realizzata la rivoluzione tecnologica, ed in cui quindi compito
del socialismo riformista non è più né quello di perseguire, attraverso
l’espansione della democrazia, il graduale superamento
del capitalismo, né quello di stabilire un compromesso fra
lavoro e capitale, ma è piuttosto quello di rappresentare la rivoluzione
tecnologica in atto, indirizzandola verso obiettivi di
equità e di solidarietà. Il Manifesto del partito democratico
elude di proposito questa problematica, come altre ugualmente
controverse, nell’illusione che il minimalismo sui riferimenti
politico-culturali possa meglio consentire un nuovo inizio. Ma
le questioni che così restano aperte sono più di quelle che si
crede di aver risolto. È il caso anche dei diritti di cittadinanza,
rispetto ai quali a riproporre una visione organicistica della
società sono proprio quanti con maggiore determinazione si
propongono di andare “oltre il socialismo”, che pure da qualche
vizio organicistico non è esente nei suoi principi originari.
Costoro sembrano non rendersi conto che il motivo più fondato
per andare “oltre” il socialismo del XX secolo, in tutte le sue
versioni, è proprio la riscoperta dell’individuo e dei suoi
diritti, piuttosto che la riesumazione delle comunità “naturali”.
Anche l’enfasi posta sulla tutela costituzionale della famiglia,
in questo senso, va maneggiata con cura, se si vuole evitare di
inquinare la stessa attualità del principio di sussidiarietà, che
è invece essenziale per delimitare il ruolo dello Stato rispetto
alla libertà degli individui nella società civile. Non a caso, del
resto, i cattolici nutrirono non poche perplessità sull’opportunità
di introdurre l’articolo 29 nella Costituzione, nel timore che
esso ledesse l’autonomia della sfera religiosa, nel cui ambito
si colloca il sacramento del matrimonio e la famiglia che ne
trae origine. Per cui per definire fondamentali principi di etica
pubblica tutt’altro che incompatibili con la laicità dello Stato,
piuttosto che riferirsi a quel singolo articolo, è meglio fare riferimento
a tutta la prima parte della Costituzione del 1948,
frutto di un compromesso “alto” realizzato in un clima di
scontro ideologico ben più aspro di quello odierno, e che oggi
deve essere richiamato con forza per evitare il rischio che un
bipolarismo politico malfermo come quello che si è finora
realizzato degradi altrimenti in bipolarismo etico.
È un peccato, quindi, che il minimalismo che caratterizza la
cultura politica del Manifesto sia stato imposto proprio da
quanti non vogliono a nessun costo “morire socialisti”, e che
a questa pura e semplice negazione hanno ridotto il loro contributo
ideale. Sarebbe toccato infatti ai cattolici democratici
e ai laici liberali, oltre che ad eredi del socialismo italiano
degni di questo nome, indurre i neofiti della socialdemocrazia
a percorrere l’ultimo chilometro della loro revisione. Ma si
tratta del peccato originale, che secondo alcune correnti teologiche
è un peccato che non si può non commettere, perché
costitutivo della finitezza dell’uomo. Nell’Eden la Margherita
avrebbe potuto gradualmente aggiungere petalo a petalo, e il
PDS avrebbe potuto gradualmente far crescere la Rosa piantata
frettolosamente sotto la Quercia. Ma non siamo nell’Eden,
per cui si deve continuare a discutere. Meglio però discutere
apertamente ed approfonditamente, e non nascondere i dissensi
sotto il tappeto. Anche perché, se si discute nel merito, si può
scoprire che nel vivo della lotta politica le antiche appartenenze
si sono già sciolte, senza però dar luogo con sufficiente
visibilità a qualcosa di simile a quella “sintesi” auspicata da
Salvati per dare al nuovo partito una “forza ideologica e culturale”
che gli consenta di essere una formazione politica autonoma
capace di interpretare “la rivoluzione che c’è”, per
usare un’espressione della conferenza di Rimini, e non soltanto
“la destra della sinistra”, come erano i riformisti marxisti
dell’epoca del rinnegato Kautsky, impegnati ad esorcizzare
una rivoluzione che non c’era, o se c’era generava mostri.
Nel suo discorso di Torino è stato Walter Veltroni a dimostrare
che è possibile offrire una sintesi convincente della forza ideologica
e culturale su cui si può fondare un nuovo partito. E fortunatamente
la sua non è una vox clamantis in deserto, perché
il catalogo delle posizioni trasversali in attesa di adeguata classificazione
politico-culturale è vasto. Si può cominciare dalle
liberalizzazioni, che sono il simbolo del superamento di una
dimensione corporativa non estranea al socialismo riformista
di un tempo. Si può proseguire con le politiche per il Sud,
oggetto di una controversia tutta interna alla sinistra come
quella che si è sviluppata fra Nicola Rossi e Fabrizio Barca. E
di seguito: la questione del funzionamento della giustizia,
senza subire i veti olfattivi di chi sente “odore di Bicamerale”
ogni volta che si evoca la terzietà della magistratura giudicante;
la questione dell’autonomia scolastica, destinata a soppiantare
la polemica ottocentesca sul pubblico e il privato nella scuola,
come avevano intuito Luigi Berlinguer agli esordi della seconda
Repubblica ed altri negli anni maturi della prima; la liberalizzazione
del mercato del lavoro, promossa in sequenza coerente
da Tiziano Treu, Marco Biagi e Pietro Ichino. È un catalogo,
questo, che è difficile non classificare sotto la voce “socialismo
liberale”, e che altrimenti, del resto, rischia di restare senza
padre e senza madre nel dibattito culturale e nello scontro
politico che comunque attorno ai suoi titoli si determina. E
attorno ai quali, invece, si possono aggregare forze nuove e
disarticolare forze che cercano identità nelle più decrepite appartenenze.
C’è da sperare, quindi, che superata la fase in cui,
anche comprensibilmente, le dispute semantiche sono state
strumentali alla determinazione degli assetti interni al nuovo
partito il dibattito politico-culturale si sviluppi con maggiore
libertà. Altrimenti l’impresa non varrà la spesa.
mondoperaio 4/2022
I “Beni culturali” fra sopravvivenza e indipendenza
>>>> Luigi Covatta
Premessa
La chiacchiera sui beni culturali costituisce ormai un genere
letterario a sé, alimentato da seriali reportage sui «crolli» di
Pompei, sui «restauri» necessari al Colosseo, sull’opus infinitum
della Grande Brera, sull’homelessness dei Bronzi di Riace; e
da altrettanto seriali dispute sui tagli inferti al bilancio del Ministero
e sul rapporto fra pubblico e privato. Qualche anno fa,
sul Sole 24 Ore, Salvatore Settis definì questo genere di
chiacchiere «benculturalismo», e lo fece risalire a quando «le
vecchie care antichità e belle arti» vennero trasfigurate «in
quattro e quattr’otto in beni culturali»1. In quattro e quattr’otto,
effettivamente, venne istituito il ministero «per i beni culturali
e ambientali». Correva 331 l’anno 1974, e Spadolini, a differenza
dei suoi predecessori, per ragioni di status voleva
disporre di un portafoglio2. E lo voleva con tanta determinazione
che Moro, per accontentarlo, istituì il ministero per decreto,
prassi inedita nella storia unitaria (anche se poi più volte
adottata nel ventennio della seconda Repubblica).
Doveva essere un ministero «atipico», ma l’atipicità andava
cercata soprattutto nelle preposizioni: specialmente in quel
«per» che sostituiva il «di» nel collegare l’istituzione al proprio
oggetto, e che veniva ripetuto anche nel denominare le direzioni
generali, a loro volta oggetto di innovazione semantica, perché
definite «uffici centrali». Già allora, però, Andrea Carandini
aveva osservato che «il nuovo ministero, tutt’altro che atipico,
presenta una struttura verticistica di abnorme dimensione, la
quale non soltanto non ammette alcun reale decentramento regionale,
ma neppure consente un decentramento nell’ambito
della propria organizzazione3. E Sabino Cassese (1976: 153-
183) a sua volta definiva il nuovo ministero «una scatola
vuota», perché «il provvedimento non indica una politica
nuova, non contiene una riforma della legislazione di tutela;
consiste in un mero trasferimento di uffici da una struttura all’altra
e non si vede perché uffici che non funzionano dovrebbero
funzionare riuniti in un unico Ministero».
La critica più pertinente, comunque, avrebbe dovuto essere
un’altra. Le «vecchie care antichità e belle arti» erano un
ramo del ministero della Pubblica istruzione, così come gli archivi
dipendevano dal ministero dell’Interno, e le biblioteche
(eccezion fatta per quelle universitarie) erano in transito fra la
Presidenza del Consiglio e le Regioni da poco istituite. Accorparne
le competenze in un nuovo ministero significava innanzitutto
separarle da contesti vitali: quello della scuola e dell’università,
ma anche quello degli enti
locali, principali depositari di archivi e fondamentali promotori
di biblioteche. Più o meno consapevolmente, quindi, l’istituzione
di un ministero ad hoc finiva per incentivare una politica
della tutela fondata su «una separazione netta, radicale, tra gli
specialisti (detentori e depositari di particolari saperi) e i
comuni cittadini, come ha scritto qualche anno fa l’archeologa
romana Andreina Ricci (2006: 80).
Era un rischio già presente nella legge del 1939, ma che il regime
fascista – comunque poco attento ai diritti dei comuni
cittadini – aveva in qualche modo ridotto attraverso un uso
politico della storia (soprattutto di quella della Roma imperiale)
che più o meno limpidamente si sforzava di collegare il
passato e il presente. Ora invece – forse anche grazie alla
cattiva coscienza di chi si era repentinamente convertito dal
* Economia della Cultura (ISSN 1122-7885) Fascicolo 3, agosto 2013.
Il Sole 24 Ore del 28 maggio 2007.
2 Il primo ministro senza portafoglio per «i beni culturali e l’ambiente» fu
Camillo Ripa-monti, che entrò in carica il 6 luglio 1973 con il IV governo
Rumor. Dopo di lui, col V governo Rumor, l’incarico fu affidato a Giuseppe
Lupis.
3 L’Unità del 20 ottobre 1975. Sul tema, nell’ottica di un addetto ai lavori,
si veda Zanardi, 2012: 113-118 e 2013.
fascismo all’antifascismo4 – la politica della tutela si connotava
«come strumento di opposizione» rifiutandolo in blocco, che
da pensare; verso un presente, teso unicamente erga omnes:
«Verso un passato prossimo più facile da cancellare, a garantire
preesistenze considerate concluse nel loro ciclo trasformativo;
verso un futuro estraneo, astratto, mai localizzabile né compatibile
coi resti materiali del passato» (Ricci, 2006: 56).
Già nel 1967, del resto, Umberto Eco aveva segnalato gli esiti
paradossali di questa concezione della tutela. Commentando
le imprese degli «angeli del fango», aveva scritto infatti sull’Espresso
che «a Firenze […] si piangeva su qualcosa universalmente
riconosciuto come bellissimo […], ma praticamente
ignoto. Che poteva rimanere ignoto senza cessare di essere ritenuto
bellissimo. Tanto è vero che anche i suoi custodi,
prima che si alluvionasse, non ritenevano indispensabile metterlo
alla portata del pubblico, e lo nascondevano in soppalchi
e scantinati: perché era pacifico che andasse goduto non
perché lo si guardava, ma perché si sapeva che c’era».
Eco (1973; 2012: 303) sosteneva che «l’adorazione laica fa
dell’opera […] un ‘feticcio’. E l’opera come feticcio non
viene goduta per il piacere che suscita, ma per il piacere
che ha suscitato una volta»: anche perché viene letta coi
codici linguistici di una volta, e non con quelli correnti5,
cedendo, per citare ancora la Ricci, alla «tentazione di credere
che accumulare frammenti di preesistenze equivalga,
di per sé, ad accumulare una memoria», mentre «l’azione
del ricordare deve avvenire, e deve avvenire nel presente»
(Ricci, 2006).
Per inciso, è il caso di osservare che – più o meno consapevolmente
– a questo criterio si ispirava l’esperimento dei
«giacimenti culturali» finanziato con l’articolo 15 della legge
finanziaria del 1986. La metafora, infatti, si riferiva piuttosto
all’esigenza di «raffinare» il «greggio» che giaceva sotto una
spessa coltre di codificazione interpretativa che non alla
pretesa di ricavare quel petrolio che dopo la crisi energetica
degli anni ‘70 era diventato l’equivalente generale della ricchezza delle nazioni 6.
Passato e presente
Per rendere efficace e sostenibile una politica di tutela del patrimonio
culturale, quindi, la prima dicotomia da ricomporre
non è quella fra pubblico e privato (e ancor meno quella fra
centro e periferia), ma è quella fra passato e presente (possibilmente
con uno sguardo al futuro). Il rischio, altrimenti, non
è solo quello dell’inefficienza e dell’insostenibilità: è anche
quello di ingabbiare la fruizione del patrimonio artistico e
monumentale in una sorta di estetica di Stato che, se solo
venisse imposta per la fruizione di altre parti del patrimonio
culturale (il teatro musicale, per esempio, o il patrimonio archivistico),
solleverebbe non ingiustificate perplessità. Mentre
invece i conservatori dei nostri musei, secondo Michele Trimarchi
e Paolo Leon (2003), grazie ad un «coagulo obsoleto
e rigido di norme e regole», hanno partorito «un portentoso
essere, un museo che guarda all’Ottocento quando mantiene
in vita la propria collezione, e al prossimo secolo quando inzeppa
gli scaffali di portacenere e mouse-pad»7.
D’altra parte l’applicazione dell’inevitabile astrazione burocratica
ad una materia così complessa ha prodotto danni
ulteriori anche nella dimensione della pura e semplice conservazione
fisica delle testimonianze del passato (quella cioè comunque
considerata insufficiente da Eco e dalla Ricci, e
tuttavia posta a fondamento della legge di tutela del 1939).
Scriveva nel 1989 Giovanni Urbani, sei anni dopo avere polemicamente
lasciato la direzione dell’Istituto centrale del restauro:
«Se dovessi indicare la ragione principale dei nostri
mali, credo proprio che me la prenderei prima di tutto con l’oscura coercizione ideologica per cui di punto in bianco, un
quarto di secolo fa, ci ritrovammo tutti a non parlare più di
opere d’arte e testimonianze storiche, ma di beni culturali. Binomio
malefico funzionante come un buco nero capace di inghiottire
tutto, e tutto nullificare in vuote forme verbali: beni
artistici, storici, archeologici, architettonici, ambientali, archivistici,
librari, demoantropologici, linguistici, audiovisivi
e chi più ne ha più ne metta. Un enorme scatolone vuoto entro
cui avrebbe dovuto trovare posto, secondo l’aulico programma
spadoliniano, ‘tutta l’identità storica e morale della Nazione’
salvo poi non aver saputo infilarci dentro che l’ultimo o il penultimo
dei ministeri» (Urbani [1981], 2000: 43-48).
note
4 Il tema è di particolare rilievo riguardo all’argomento di questo scritto, se
si tiene conto della biografia di alcuni fra i più autorevoli «specialisti» cui
fa riferimento Andreina Ricci. La letteratura in proposito è copiosa da
Zangrandi, 1962, a Serri, 2005.
5 È ancora Eco a segnalarlo, nel suo contributo al volume collettaneo
AA.VV., Le isole del tesoro, 1988, Ed. Electa fuori commercio per IBM
Italia.
6 L’esperimento, come è noto, venne unanimemente demonizzato dai
«detentori di particolari saperi», ed altrettanto unanimemente archiviato
dai detentori del potere legislativo, che nel 1988, con la legge 449, dirottarono
i fondi previsti per la seconda e la terza annualità su un programma di interventi d’emergenza per la conservazione fisica del patrimonio fortemente sostenuto dall’Italstat. I primi, probabilmente, erano motivati dal
timore che i circa 4000 giovani laureati assunti con contratto a termine
dalle aziende concessionarie li espropriassero del sacerdotale potere interpretativo
di quel Talmud formatosi accumulando «frammenti di preesistenze
». I secondi erano motivati anche dall’esigenza di restituire al ceto
politico il controllo dell’accesso all’impiego più o meno pubblico e del
conseguente ciclo riproduttivo del precariato (oltre che dalle solide ragioni
dell’industria delle costruzioni). Infatti alla legge 449 si affiancò l’articolo
28 della legge finanziaria del 1988, che «salvava» le finalità sociali dei
«giacimenti» autorizzando i Comuni ad assumere, con contratto annuale e
retribuzione forfettaria di 800.000 lire al mese, giovani addetti a progetti
di «valorizzazione del patrimonio culturale». È appena il caso di ricordare
che ancora oggi, in alcune regioni, gli «articolisti» fanno parte del variegato
universo del precariato pubblico. Ed è anche il caso di ricordare che
alla fine del 1989 si dovettero riprogrammare i fondi stanziati l’anno prima
con la legge 449 per evitare che finissero in perenzione.
7 Quello del «merchandising colto» era uno dei tanti suggerimenti contenuti
nel già citato intervento di Umberto Eco del 1988. Disgraziatamente, fu
l’unico ad essere preso sul serio dagli «adoratori laici» del «feticcio»
musealizzato.
L’omologazione dei «beni»
Il problema segnalato da Urbani non era tanto quello quantitativo
indicato con il «chi più ne ha più ne metta» (anche se è
evidente la sproporzione fra le risorse di un ministero – di
qualunque ministero – e la dimensione di un patrimonio che
tende a dilatarsi all’infinito). Era quello dell’omologazione
dei «beni», e conseguentemente delle tutele. Infatti la pretesa
di una gestione amministrativa del patrimonio culturale finisce
per oscurare la concretezza di un olio su tela, di un rudere romano,
di un palazzo del Rinascimento, di una statua equestre,
ed anche – perché no? – di un audiovisivo: di oggetti, cioè,
ciascuno dei quali esige una tutela ed una tecnica conservativa
diverse dagli altri.
Urbani aveva indicato, già alla fine gli anni 1980, quali sarebbero
state le conseguenze dell’aver privilegiato «il momento
giuridico-amministrativo della tutela rispetto a quello tecnico-
scientifico», dal momento che per il primo «è sufficiente il
riferimento a classi generiche di beni, nei riguardi dei quali
l’unica misura di tutela appropriata è quella passiva della limitazione
o divieto, uniformemente applicabile alla generalità
indifferenziata dei beni», mentre «per una tutela in positivo
non ci si può invece riferire che alla realtà differenziata dei
singoli beni, da ordinarsi quindi non più in classi generiche,
ma in insiemi o sistemi determinati o circoscritti» (Urbani
(1989), 1999: 53-62). Italia Nostra, l’associazione per la
quale Urbani aveva scritto quelle proposte, non apprezzò però
il suo contributo, facendolo rivedere da un suo socio d’alto
grado, nella vita magistrato: il quale, dilettante di buona
volontà, non comprese la ratio profondamente innovativa di
quel testo, trasformandolo nella solita e inutile riedizione
della legge di tutela 1089 del 1939. Finì che Urbani si dimise
dal sodalizio.
Già allora, comunque, si verificava un curioso paradosso che
finirà per essere anch’esso costitutivo della chiacchiera sui
beni culturali: quello per cui quanti – come per esempio Italia
Nostra – lamentano con maggiore veemenza il degrado del
nostro patrimonio culturale sono poi i più fermi difensori
dello status quo (non solo dell’adeguatezza delle leggi di
tutela in vigore, ma anche dell’organizzazione realizzata per
attuarle). Si tratta, beninteso, di un paradosso che si manifesta
anche in altri settori della nostra vita civile, in cui la valutazione
ex ante è sempre preferita a quella ex post, e le decisioni pubbliche
che provocano i peggiori disastri risultano formalmente
ineccepibili in sede di controllo preventivo. L’Italia, insomma,
è un paese in cui, se uno strumento non funziona, l’ultima
cosa a cui si pensa è misurarne la congruità, mentre invece ci
si ingegna a riorganizzarne i meccanismi, si colpevolizza l’adeguatezza
degli operatori, si eccepisce sul rispetto delle
norme d’uso. È quello che è successo nella quasi quarantennale
storia del ministero fondato da Spadolini: che ha addirittura
cambiato nome e morfologia (da ministero «per i beni culturali
e ambientali» a ministero «dei beni e delle attività culturali»);
di cui sono stati titolari addirittura due vicepresidenti del
Consiglio; e che dal 1999 al 2009 è stato riorganizzato addirittura
quattro volte (Casini, 2012: 171-175)8.
L’alibi generalmente usato per giustificare gli scarsi risultati
delle politiche di tutela correnti è quello della scarsità delle
risorse. Ma anche in questo caso ci si imbatte in un paradosso.
Il Mibac, infatti, mentre chiede più risorse, vanta il record dei
residui passivi (con tutto quello che ne consegue, fra l’altro, in
relazione agli automatismi introdotti nelle ultime leggi finanziarie
per determinare tagli ulteriori). Basti pensare che dal 2002 al
2009 i residui delle contabilità speciali (cioè delle spese relative
al finanziamento di progetti) non sono mai scesi sotto il 44,64%
(2008), a prescindere dal calo progressivo delle disponibilità
(dal miliardo del 2002, residuo 56,88%, ai 444 milioni del
2009, residuo 55,25%); e che nel tanto deplorato caso di Pompei
i residui oscillano fra l’85,77% del 2005 e il 51,88% del 20099.
Quantità e qualità
Sembra evidente, quindi, che è illusorio puntare sulla quantità
delle risorse senza rivedere la qualità degli interventi necessari
per la tutela del nostro patrimonio culturale. E sembra altrettanto
evidente che una nuova qualità degli interventi esige una
nuova cultura della tutela, lontana da quella che può assicurare
un apparato amministrativo. Una dimostrazione a contrario è
stata involontariamente fornita da un altro Urbani, Giuliano,
quando da ministro ha tentato di mettere mano ad un nuovo
Codice dei beni culturali. Infatti la pretesa di gestire con strumenti
prevalentemente amministrativi una realtà complessa
quale è quella che costituisce il patrimonio culturale di una
nazione – già discutibile nel 1939, pur in un contesto istituzionale
fortemente statalista e in presenza di una definizione
estremamente ristretta dell’oggetto della tutela – si è rivelata
francamente insostenibile quando, col nuovo Codice, si è
tentato di mettere vino nuovo in botti vecchie: la tutela del
paesaggio, per esempio, nelle prassi amministrative di quello
che è pur sempre rimasto il «ministero dei musei».
Non a caso, del resto, il ministro Urbani, nel presentare il
nuovo Codice alle Camere, con un linguaggio che per la verità
non gli appartiene riteneva «di non dover prendere una posizione
netta e definitiva nell’ambito della risalente e mai sopita disputa
dottrinaria sulla nozione di ‘bene culturale’, giudicandosi più
opportuno accogliere una nozione ‘mista’ di bene culturale, risultante
dalla sintesi della nozione elencativa offerta dall’articolo
2 della legge 1089 del 1939 con la nozione ‘aperta’ già proposta
dalla nota Commissione ‘Franceschini’ nel 1966»10.
Come fosse possibile, nel 2003, pensare di tutelare qualcosa
che non si sapeva identificare se non facendo «una sintesi» fra
una definizione del 1939 e una del 1966 è questione da lasciar
risolvere ai consiglieri giuridici di Urbani. Ma perché non
fosse possibile chiudere la «risalente e mai sopita disputa» è
invece più chiaro. Infatti solo se si tratta di custodire «cose»,
possibilmente musealizzate o musealizzabili, può avere un
senso la gestione amministrativa del patrimonio culturale.
Mentre se, come sosteneva l’altro Urbani, oggetto della tutela
è l’intero contesto in cui le «cose» sono collocate (il territorio,
cioè), diventa inevitabile adottare principi di tutela attiva, che
postulano cooperazione interistituzionale e autorità di vigilanza
organizzate secondo criteri tecnico-scientifici: l’opposto non
solo di questo ministero, ma di qualsiasi
note
8 Da notare che con la riforma Veltroni la denominazione del ministero si
è adeguata a un uso più consono delle preposizioni, e che le sue competenze
di volta in volta sono state disinvoltamente estese allo sport o al
turismo.
9 Poco male, quindi, se l’anno scorso il ministero ha rinunciato al contributo
offerto dalla Fondazione La Défense, espressione dell’organizzazione
degli imprenditori francesi, non volendo riconoscere un qualsiasi
ruolo dei donatori nel controllo dell’esecuzione del progetto. Sulla capability
del Mibac, per non appesantire lo scritto, rinvio senz’altro a Graziani
e Pennisi, 2012: 52-69.
10 Il termine «bene culturale» entra in effetti nel nostro lessico politico-giuridico
con le conclusioni della Commissione istituita con la legge 310 del
1964, presieduta dall’on. Francesco Franceschini. Le conclusioni della
Commissione in Per la salvezza dei beni culturali in Italia, Colombo,
1967. Una testimonianza delle difficoltà concettuali con cui dovette misurarsi
chi lavorò alla redazione del Codice Urbani nel citato contributo di Bruno Zanardi, 2012: 134-142.
Un ministero è un ministero
Un ministero, infatti, è un ministero: «Un termine giuridicamente
specifico che corrisponde […] ad una precisa tipologia:
un insieme di apparati amministrativi a forma piramidale […]
specializzato per macro aree funzionali […] disciplinato dal
diritto amministrativo e da un regime tipico di controlli amministrativi,
contabili e finanziari, retto da un titolare di estrazione
politica, il ministro, e concepito per svolgere il proprio
compito in termini di gestione diretta e accentrata», come ricordava
Marco Cammelli nel 1996. Il quale in alternativa proponeva
«un’amministrazione autonoma dei beni culturali»
che affidasse la tu tela passiva a un’Autorità indipendente, e
lasciasse la tutela attiva alle
politiche del territorio (1996). Regioni, che anche senza devolution
sono per Costituzione titolari delle
Già trent’anni prima, del resto, Massimo Severo Giannini
((1991), 1999: 81-86) aveva proposto di istituire, invece che
un ministero, un’agenzia per la tutela, che avrebbe avuto il
pregio di essere «una struttura molto agile, come un grandissimo
ufficio per l’organizzazione e il controllo della tutela, che per
l’azione avrebbe potuto utilizzare strumenti di diritto privato,
cioè applicare il Codice civile». E probabilmente idee non dissimili
coltivava il ministro Bassanini quando nel 1998 aveva
previsto di togliere nuovamente il «portafoglio» al ministro
dei Beni culturali, salvo essere poi subissato dalle contumelie
di associazioni, studiosi, tecnici e ministri in carica 11.
La sindrome dei «mercanti nel tempio»
I ministri in carica, ovviamente, avevano le loro buone ragioni.
Meno comprensibili, invece, sono le ragioni dei tecnici e
degli studiosi per diffidare di «un grandissimo ufficio per
l’organizzazione e il controllo della tutela». Forse però esse
hanno a che fare col richiamo di Giannini agli «strumenti di
diritto privato». Perché ad un certo punto di qualsiasi ragionamento
volto ad analizzare criticamente leggi ed organi di
tutela, tecnici e studiosi cadono vittime della sindrome dei
«mercanti nel tempio». Teorizzano giustamente che il patrimonio
culturale è un «bene comune», e che l’articolo 9 della
Costituzione dice che «la Repubblica […] tutela il paesaggio
e il patrimonio storico e artistico della Nazione». Ma spesso
confondono la Repubblica con lo Stato ed il «bene comune»
col monopolio statale12. È bene allora ricordare che per
l’articolo 114 della Costituzione «la Repubblica è costituita
dai Comuni, dalle Provincie, dalle Città metropolitane, dalle
Regioni e dallo Stato»; e che la nozione di «bene comune», se
non altro perché di molto antecedente la formazione degli
Stati moderni, presume piuttosto una gestione comunitaria
che non una gestione burocratica del bene stesso: come ora
sembra sostenere, in implicita polemica con Settis, anche Andrea
Carandini, che però, per riportare all’onor del mondo la
nozione di pluralismo, è costretto a rifarsi addirittura a Tocqueville,
a testimonianza di come sia debole in materia la
cultura politica corrente, nonostante le retoriche sul ruolo
della società civile, la democrazia partecipativa e le reti civiche
di ogni genere e specie13.
Va detto, inoltre, che non sempre è giustificata la diffidenza
verso forme di cooperazione interistituzionale nella gestione
di interventi di manutenzione e restauro. Valga l’esempio del
consolidamento della Torre di Pisa, affidato nel 1989 ad un
comitato scientifico internazionale nominato dal ministro per
i Beni culturali e dal ministro dei Lavori pubblici, che portò a
termine l’intervento nel giro di pochi anni coinvolgendo la
comunità scientifica, l’Opera della Primaziale, il Comune e la
Curia vescovile14. Non è sempre giustificata neanche la diffidenza
per le iniziative degli enti locali. Valga l’esempio di
Ferrara Musica, iniziativa sorta dalla collaborazione fra il
Comune e l’Orchestra giovanile europea di Claudio Abbado,
realizzata anche utilizzando alcuni dei beni rinvenienti dal recupero
delle mura cittadine, e quindi significativa anche per
la capacità di valorizzare gli investimenti pubblici destinati
note
11 Grazie alle quali, alla fine, nella legge 50 del 1999 il portafoglio rimase.
Poco male, del resto, visto lo scempio che di quella legge è stato fatto,
negli anni successivi, per adeguarla alle mutevoli esigenze del manuale
Cencelli della seconda Repubblica.
12 Non è questa la sede per approfondire il tema dei «beni comuni». Nel
dibattito pubblico più recente è stato proposto in Mattei, 2011. Una confutazione
delle teorie di Mattei, e soprattutto della retorica che ne è derivata,
è in Vitale, 2013.
13 Il Sole 24 Ore del 1° settembre 2013. Carandini, evocando «il bene
comune che viene dal basso», sostiene che senza il supporto dei governi
locali e dell’associazionismo «il bene comune non ce la farà a prevalere»,
ed auspica una democrazia «dove la direzione burocratica dal centro (dall’alto
al basso) si combini con l’autogoverno e la partecipazione della cittadinanza
attiva (dal basso all’alto)».
14 Un rendiconto del lavoro della Commissione in La torre restituita,
numero speciale del Bollettino d’Arte, Mibac, 2007. Su questo argomento
si veda anche Pagani, 2012. Ovviamente non tutte le procedure straordinarie
sono andate a buon fine. In particolare hanno fallito quelle che non
hanno saputo o voluto coinvolgere il territorio. Esemplare il caso di Pompei
e del Parco dell’Appia antica, siti entrambi affidati alla Protezione
civile nel 2008. In proposito si vedano gli articoli di Valerio Francola in
Mondoperaio, febbraio 2010, e Pietro G. Guzzo in Mondoperaio, gennaio
2011.
alla conservazione fisica del patrimonio. E valga anche l’esempio
del Comune di Pesaro, che promuovendo il Rossini
Opera Festival ha dato un contributo fondamentale alla ricerca
sulle composizioni rossiniane, ed anche all’innovazione del
teatro musicale italiano: mentre invece le edizioni critiche
delle opere di Verdi vengono pubblicate dall’Università di
Chicago, benché in Italia viva e vegeti un pregiato Istituto nazionale
di studi verdiani15.
L’articolo 9, comunque, non ha costituzionalizzato la legge
Bottai, così come l’articolo 7 non costituzionalizzò i Patti lateranensi.
Resta intatta la questione di come normare la tutela
di beni che sono di interesse pubblico soltanto in quanto beni
immateriali, ma che al contempo sono beni materiali spesso
di proprietà privata16. Ed è questione di grande complessità,
sulla quale sarebbe il caso di aprire un dibattito ampio e approfondito
almeno quanto quello che sostenne la redazione
dell’articolo 9 della Costituzione (Leone, Maddalena, Montanari
e Settis, 2013).
La sindrome dei «mercanti nel tempio» induce soprattutto
ad esorcizzare il rischio della contaminazione fra Arte e
Mercato. Per la verità, come tecnici e studiosi sanno benissimo,
c’è una copiosa letteratura sulla committenza, ignorando
la quale è perfino difficile leggere un’opera d’arte o un monumento:
a testimoniare che fra Arte e Mercato qualche contaminazione
c’è sempre stata e sempre ci sarà, e che anzi
spesso sono stati i mercanti a costruire il tempio. Ma il feticismo
denunciato a suo tempo da Eco fa sì che, così come si
pretende di isolare il bene culturale dal tempo e dallo spazio,
lo si voglia isolare anche da quella dimensione di mercato
che inevitabilmente è intrinseca al tempo e allo spazio della
modernità, e che comporta tanto opportunità quanto rischi:
con l’avvertenza che alle opportunità si può (magari colpevolmente)
rinunciare, mentre i rischi non sono evitabili con
strumenti di prevenzione pensati per un’altra società ed un
altro secolo.
«Anche l’arte è più che mai una merce», deplorava invece un
manifesto ricco più di firme che di argomenti con il quale un
anno fa molti tecnici e studiosi si scagliarono contro la costituzione
della «Fondazione Grande Brera». L’occasione, per
la verità, non poteva essere peggiore, visto che il primo
compito della Fondazione avrebbe dovuto essere quello di
portare a termine un progetto avviato (e finanziato) fin dal
lontano 1974. Senza dire che negli anni ‘80 a Brera era stato
stipulato un incredibile accordo sindacale che concedeva ai
custodi il diritto a mezz’ora di «decantazione» per ogni ora
lavorata17.
note
15 Da segnalare anche l’esempio del Comune di Bologna, che negli anni ‘80
aprì i cortili dei musei cittadini per ospitarvi spettacoli anche «leggeri»,
offrendo contestualmente visite guidate alle collezioni; e che decise, nella
stessa logica, di ospitare nel cortile di Palazzo d’Accursio il cantiere di
restauro del Nettuno del Giambologna, visitabile dal pubblico attraverso
una macchina teatrale («La casa del Nettuno») allestita da Mario Ceroli.
In quell’occasione le offerte libere dei visitatori ed i ricavi del «merchandising
colto» fruttarono una settantina di milioni di lire.
16 Per Massimo Severo Giannini le medesime cose«sono supporto insieme
di uno o più beni patrimoniali, e di un altro bene, che è il bene culturale.
Come bene patrimoniale la cosa è oggetto di diritti di proprietà, e può
esserlo di altri diritti (per esempio usufrutto, pegno), come bene culturale
è oggetto di situazioni soggettive attive del potere pubblico» (citato in S.
Cassese, L’amministrazione dello Stato, p. 175).
17 Anche in questo caso, come spesso accade, dietro le buone ragioni degli
uomini di cultura non mancavano pulsioni corporative: a cominciare da
quelle dei docenti dell’Accademia di belle arti, che non gradivano il trasferimento
della scuola in altra sede, come previsto dal progetto; per non
parlare di un robusto comunicato di sostegno del sindacato della Funzione
pubblica della Cgil.
A quel documento non mancarono le repliche, a cominciare
da quella di Michele Trimarchi e di altri economisti della cultura,
firmatari, insieme con numerosi archeologi e storici dell’arte,
di un appello uguale e contrario promosso dall’associazione
Mecenate 90. Ed altre repliche potranno venire da altri
economisti18. Ma sembra più appropriato citare ancora quello
che Eco scriveva nel 1967 sull’Espresso: «L’ideologia del
museo dimostra le sue tare: e ci si accorge che, se in essa
l’opera diventa merce, non è solo perché le si incrosta addosso
il proprio valore di scambio; è perché anche il suo valore
d’uso è svisato in partenza: essa è «scambiata» perché non la
si sa più «usare», e si usa in essa l’uso che altri ne hanno fatto
prima» (2012: 304).
Prima ancora di immaginare e proporre soluzioni meno arcaiche
del problema della tutela19, quindi, è necessario chiarire che
quando si postula un’alternativa alla gestione burocratica e
statalistica del patrimonio culturale non si intende necessariamente
subordinare le ragioni della cultura a quelle del mercato,
ma semmai promuovere un’idea di cultura diversa da quella di
Bottai, di Argan, e forse anche di Spadolini. Non si intende
neanche negare, come si è già detto, che il patrimonio culturale
sia un «bene comune». Si tratta semmai di stabilire come
questo bene possa effettivamente diventare «comune». Magari,
a costo di scandalizzare qualcuno, citando ancora Eco, il quale
fra l’altro sa bene quale medium potente sia il mercato: tanto
che nel 1988 arrivò a sostenere che «lo sfruttamento economico
di un bene culturale diventa la possibilità di consentire senza
spreco e al minimo costo la massimizzazione del godimento
conoscitivo ed estetico, da parte di tutta la collettività, di
materiali lavorati dall’azione umana che, per circostanze
note
18 Fra gli altri – oltre ad economisti come Carlo Fuortes, Massimo Lo
Cicero, Giuseppe Pennisi, Lucio Scandizzo, amministratori come Valentino
Castellani, Sergio Chiamparino, Mara Rumiz, Bruno Bracalente,
uomini di cultura come Pietrangelo Buttafuoco, Stefano Levi della Torre,
Alain Elkann, Giordano B. Guerri, Folco Quilici, Stefano Rolando, Salvatore
Veca – anche addetti ai lavori come Francesco Prosperetti, Anna
Maria Reggiani, Andreina Ricci e Bruno Toscano, a suo tempo estensore,
con Giovanni Urbani, del piano di conservazione programmata dell’Umbria.
Per tutta questa materia resta comunque attuale il contributo di
Augusto Graziani, economista difficilmente classificabile fra i «liberisti»
e i «mercatisti», al già citato Le isole del tesoro.
19 L’Autore non si è sottratto al compito, sia nell’introduzione al citato I beni
culturali tra tutela, mercato e territorio (pp. 15-42), sia nel redigere, con
Marco Cammelli, la scheda contenuta nel volume Per il governo del
Paese. Proposte di politiche pubbliche (2013). In quest’ultima scheda, in
particolare, si sostiene che «per riproporre adeguatamente la ‘tutela della
cultura’ occorre rinnovare adeguatamente la ‘cultura della tutela’:
riguardo all’oggetto, che non deve più essere costituito solo dalle cose,
ma dai ‘contesti’ in cui queste cose insistono; riguardo al soggetto, che
non deve essere più solo ‘lo Stato’, ma anche ‘la società civile’; riguardo
alla procedura, che non deve più ridursi solo al ‘vincolo amministrativo’,
ma anche a quello che potrebbe essere definito ‘vincolo civico’; riguardo
agli strumenti, che non debbono più ridursi a pratiche puntiformi di
‘restauro estetico’, ma piuttosto alla ‘manutenzione programmata’».
sottratte a tale godimento, attraverso operazioni intenzionali o
accidentali di occultamento, sì che appaia razionale e giusto riportarle
alla luce e alla fruizione di tutti coloro che ne abbiano
diritto (e nella fattispecie di tutti gli appartenenti al corpo sociale)
»20.
Si dirà che Umberto Eco si innamora troppo dei propri
paradossi fino a portarli alle estreme conseguenze; e si dirà
anche che egli scriveva un quarto di secolo fa, prima che il
pensiero unico liberista e mercatista producesse tutti i disastri
che ha prodotto. Ora però è un bocconiano alieno dai paradossi,
Severino Salvemini, ad affiancare nuovamente Arte e Mercato.
Salvemini sa bene che «l’obbligo istituzionale principale» di
chi governa un’istituzione culturale «è quello di educare l’opinione
pubblica, di perpetuare la memoria e il sapere, di preservare
l’identità della comunità», e diffida di chi replica
«troppo acriticamente nell’ambiente culturale formule di
cut&paste aziendalistico»; ma invita «gli intellettuali e i sacerdoti
della cultura» ad interiorizzare «i vincoli odierni di un
mondo che ha ormai un welfare declinante e dove la cultura
deve stare maggiormente sul mercato», anche perché solo
così si determinano «quelle condizioni di sostenibilità […]
che consentono di portare avanti nel medio termine una linea
culturale di autonomia e indipendenza», senza «inginocchiarsi
per forza col cappello in mano di fronte al mecenate di turno
o all’ente pubblico territoriale o centrale per garantire la
propria sopravvivenza»21. E probabilmente il dilemma che intellettuali
e sacerdoti 339 della cultura devono sciogliere è
proprio quello fra indipendenza e sopravvivenza: un’indipendenza
da guadagnare o una sopravvivenza octroyée da qualche ministro e da qualche ministero.
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lungo viaggio attraverso il fascismo, Milano, Feltrinelli
note
20 Le isole del tesoro, cit.
21 Il Corriere della Sera del 29 agosto 2013. Salvemini – che è anche presidente
di Telecom Italia Media, cioè di un gruppo che ha sfidato con
successo il duopolio dell’emittenza televisiva in Italia – interviene nella
polemica insorta fra Tommaso Montanari ed Elena Christillin, presidente
del Museo Egizio di Torino, della quale Montanari contestava la competenza
scientifica; e conclude, riferendosi a un illustre precedente della
Milano del dopoguerra, ricordando che «senza Grassi, Strehler non
sarebbe stato Strehler», e «senza Strehler, Grassi non sarebbe stato Grassi”
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