Biosistema e vita animale non umana. Un punto di vista politico di Carmela Bianco

Carmela Bianco

Tratto da” Heliopolis Cultura  Civiltà Politica ISSN , 2281-3489.Anno XVII,Numero 1 -2019

    

AbstrAct:

Environmental protection is an increasingly lively issue in many philosophi-
cal-political debates. The assumption that is proposed in these pages is that the biosystem
is to be considered a common good to be protected in all its aspects, in particular in its
relations between humans and non-humans. These formulations are tied to new trends
including two in particular: the rights of future generations and the notion of community
of life. In them it is possible to find the echo of ancient ethical, philosophical and jurid –
ical concepts such as the bonum commune and the publica utilitas. It is under the great
meaning of “common good” that we must place not only the political protection of the
environment, but our responsibility as men.

Keywords: Rights – Common good – Responsibility – Duty – Technoscience

1. Natura e cultura nella relazione uomo e ambiente

Nella relazione tra uomo e ambiente (un binomio, questo, che potrebbe es-
sere capovolto: ambiente-uomo), è necessario sostenere, dal punto di vista politico
(cioè di gestione pubblica del bene comune di una collettività organizzata), un obiet-
tivo di attualizzazione, ovvero di analisi qui ed ora, collegata alla situazione in atto di
due realtà che, apparentemente, sono ancora una di fronte all’altra, ma ormai sono
anche una nell’altra, o meglio una che non sussiste senza l’altra. Ciò ri-configura la
stessa esigenza di tutela dell’ambiente, del paesaggio, degli altri esseri viventi animati
che ne fanno parte (sia animali non umani che sistemi vegetali). Di qui la necessità
di partire dall’assunto che tutto il territorio, sia per la storia che lo ha formato, sia
per i valori paesaggistici e culturali, che per la memoria collettiva che lo alimenta
(come ci ricorda l’epigenetica), è da considerarsi un bene da tutelare in tutti i suoi
aspetti (ambientali, antropici, animalisti…); soprattutto nelle sue relazioni tra uma-
ni e non umani. Tutti questi elementi, non uno solo di essi, in quanto costituiscono
punti di riferimento collettivo, sono, perciò, da considerarsi “valori ambientali” e
le loro interrelazioni possono rappresentare un “bene comune” da tutelare. Il che
interessa anche lo studioso di fenomeni e dinamiche politiche.
L’ambiente, del resto, è l’elemento dinamico che da sempre ha accompagna-
to l’uomo nel suo progresso verso la cosiddetta civiltà. Tale termine rimanda, oggi,
non soltanto a ciò che circonda, ma anche a ciò che è circondato: la biosfera e i suoi equi-
libri, il paesaggio, le piante, gli animali, gli esseri umani1. È, cioè: “Un complesso
attivo di elementi che si muovono in un contesto comune, influenzandosi recipro-
camente. Esso non è solo un insieme di fatti (gli elementi che lo compongono), ma
anche un luogo di atti (le dinamiche che tra questi stessi elementi intercorrono)”2.
In esso la persona umana, che è parte integrante di questo complesso attivo, ha fi-
nora trovato tutto ciò di cui abbisognava per assicurare la propria sopravvivenza,
in un vero e proprio “sistema”, in cui tutti gli esseri viventi tessono le loro vite in
una continua crescita ed evoluzione, con i suoi oggettivi bisogni di rigorizzazio-
ne, anche normativa. Ma, nella visione che si va proponendo, l’ambiente richiede
soprattutto di essere inteso come un luogo in costante cambiamento, del quale è
esso stesso “responsabile”, in quanto attivato almeno da una parte degli elementi
che lo compongono. Il genere umano, inteso come uno degli enti che sono par-
te dell’ambiente, come tutti gli altri partecipa attivamente nei mutamenti che lo
coinvolgono, sia in positivo che in negativo e prende sempre più coscienza che gli
indirizzi antropici e le scelte pensate alla luce di una teoria antropica comportano
oggettive variazioni, anche di tipo collettivo e perfino politico. In particolare, a mo-
tivo della tecnoscienza, che è stata costruita facendo interagire teorie scientifiche e
fatti del mondo extra-mentale, l’umanità produce degli effetti di ordine qualitativo e
quantitativo non ancora paragonabili a quelli generati dagli altri “abitanti” dell’am-
biente che, nella prospettiva descritta, si configura come una collettività biotica, nella
quale ogni componente contribuisce all’assetto complessivo, ovvero al ben-essere
e, più in generale, allo stato di salute complessivo del sistema. Gli uomini si trovano,
quindi, nella peculiare condizione di essere parte di ciò che attivamente migliorano,
o a volte deturpano, anche in virtù delle strette relazioni che sussistono tra le parti
dell’insieme e l’insieme in generale.
La nostra civiltà ultramoderna è, per tal motivo, considerabile come l’esito di
un excursus attraverso le differenti fasi di “maturazione” dei valori verso il migliora-
mento (o degradazione) delle condizioni di vita degli esseri operanti in un territorio.
In tal modo, “il territorio diviene rappresentazione simbolica di valori custoditi
all’interno della percezione individuale, ma allo stesso tempo immagine della cul-
tura di un popolo e della sua storia, paesaggio umano antropizzato che l’uomo è
riuscito a modificare e a dominare”3.
Ed è in questa rappresentazione simbolica di valori – condensata nell’espressione
territorio –, che si costruiscono oggi le diverse forme di relazioni che l’uomo stabili-
sce con la terra, con il suolo e i suoi prodotti, con le falde acquifere, con l’atmosfera,
con le fonti di energia… da sempre. Tra queste, a volte prevale la relazione di pro-
prietà o di dominio, talaltra la relazione di generazione o di autore, altre volte ancora la
relazione di appartenenza.Diconseguenza,sulpianoesemplificativo,molteediverse
fra loro possono essere le relazioni simboliche che possono essere istituite con la terra
o, più ampiamente, il suolo, il sottosuolo, il paesaggio. Così, se dico “la mia terra”,
posso intendere la terra su cui ho la proprietà, oppure la terra che lavoro mediante
attività agricola o agro-alimentare, oppure la terra a cui appartengo, nel senso di
suolo che accomuna una collettività come nazione, o anche come patria, o, nelle for-
me più recenti, come stato o come continente: “Posso vedere la terra come semplice
area da picchettare, secondo un modello di corrispondenza amica o nemica con
ciò che la circonda; posso vedere la terra come area feconda, in cui esprimere la mia
capacità di lavorarla e di farla fruttificare, assumendone il rischio e la responsabilità;
posso, infine, vedere la terra come forza che mi è stata trasmessa, che non posso
riprodurre, di cui non dispongo, perché è essa a disporre di me. Nella prima forma,
vedo la terra come dominio e delimitazione dei confini, come regolamento dei
conti con ciò con cui essa confina; nella seconda forma, vedo la terra come luogo
col quale si mescola il mio lavoro, esprimendo frutti alla luce; nella terza forma,
vedo la terra come energia, propria del creato, che mi è stata tramandata, di cui
debbo saper aver cura”4.
Il territorio che ci circonda e col quale interagiamo producendo valori sim-
bolici, è, insomma, parte del nostro mondo interiore, per cui diviene altresì un bene
mai dimenticato, che alimenta l’essenza della memoria, ovvero di quella peculiare
attività percettiva che caratterizza, oltre che l’essere umano, molti altri esseri viven-
ti. Ciò che maggiormente caratterizza il suolo (sentieri in pietra, montagne erose
dal vento, deserti ghiacciati), racconta non soltanto la storia della terra e del suolo,
ma pure il cambiamento del rapporto simbolico tra uomo e ambiente, un cam-
biamento che oscilla fra la modernità che progredisce e il bisogno di custodire
un’identità. Per tal motivo, da sempre è insito nell’essere umano – un sistema per-
cettivo-memorativo con doti di progettazione e organizzazione del territorio – il
cosiddetto controllo dell’ambiente. Negli ultimi decenni, il bio-sistema umano prende
sempre maggiore consapevolezza del fatto che un utilizzo, quanto più possibile
corretto del territorio, contribuisce a mediare meglio tra i fini culturali-sociali delle
risorse territoriali (aspetti antropici) e la conservazione-tutela del territorio (aspetti
politici e normativi). Diviene sempre più diffusa la consapevolezza che sia ormai
indispensabile trovare il giusto equilibrio tra ciò che è parte della memoria e ciò che
coinvolge la capacità di progettare un futuro compatibile per la salvaguardia e la
cura del territorio stesso.
Nell’ambito di tale riflessione, esiste un termine – quello di natura – che spes-
so viene utilizzato come sinonimo di territorio e di ambiente. In effetti, i due con-
cetti sono molto vicini e si possono sovrapporre. Ma se, in vista di un primo colpo
d’occhio, consideriamo le varie accezioni che ha nel lessico filosofico (e ha avuto
nella storia della filosofia), natura mostra un arco semantico decisamente più am-
pio. Essa, in filosofia, ha significato e può significare: l’insieme dell’esistente, il ciclo
vitale, l’essenza e la legge degli enti, l’opposto del razionale, una condizione dalla
quale emanciparsi o da recuperare, un determinato stato sociale e politico e così
via. Ambiente, invece, anche nella sua accezione filosofica, ha certamente un senso
meno metafisico, più concreto e più immerso nella dimensione dell’esperienza o
meglio della percezione memorativa di ciò che ha a che fare col suolo e col territo-
rio. Esso appare, insomma, come un luogo in cui natura (con tutte le sue accezioni
che hanno a che fare con l’antica semantica del cominciare ad esserci e del generare) e
cultura (con tutte le sue accezioni del prendersi cura, del coltivare, dell’oggettivare unideale nel reale…) convivono insieme.
Molte, quindi, sono le interpretazioni date all’idea di natura. Senza passarle
tutte in rassegna, è possibile affermare che la gran parte di esse, sia di carattere teo-
retico che morale e socio-politico, che contraddistinguono la tradizione occidentale
almeno da Aristotele a Hegel, sono state caratterizzate dalla centralità dell’essere
umano e per il ruolo a lui subordinato che aveva tutta la restante natura. Sergio
Bartolommei ha proposto una definizione che potrebbe ben riassumere tutte le
interpretazioni e che attualmente può essere considerata, dal punto di vista della
stessa teoria politica, una definizione condivisa, anche se propone ancora una certa
distinzione tra prodotto umano e realtà non prodotta dall’orma antropica: “In modo
sintetico si può osservare che con “natura” si suole oggi caratterizzare, in generale,
l’ambiente non prodotto dall’uomo: gli enti fisici non umani (organici e inorganici),
considerati nella loro specifica individualità, ma anche iprocessi bio-chimici sottesi
alla produzione e riproduzione della vita, i sistemi ecologici presenti sul pianeta Ter-
ra, i meccanismi di regolazione e autoregolazione della biosfera come un tutto”5. Se ne
può ben ricavare che la natura non può evocare un qualcosa di solitario e chiuso,
ma un insieme di relazioni: tra gli organismi viventi – essere umano compreso
– e l’ambiente di cui i sistemi viventi e percettivi sono parte integrante. La stessa
condizione esistenziale del genere umano viene segnata dall’essere nella natura. E se,
al pari di tutti gli altri esseri viventi e più ampiamente dotati di percezione, anche
l’uomo è inserito in quel complesso “meccanismo” che assicura la sopravvivenza
e il funzionamento degli ecosistemi, egli ha, tuttavia, acquisito nel tempo la consa-
pevolezza delle proprie possibilità d’intervenire, direttamente o indirettamente, nei
meccanismi naturali. Nella riflessione antropica più avveduta, si segnala che tale es-
sere umano è passato da una posizione di integrazione con la realtà naturale ad una
di dominio (si noti la pregnanza politica di un tale termine, che ha a che fare con la
gestione del potere, della fonte di esso, dei limiti ad esso…). Iniziando a interferire
sempre di più nei processi di funzionamento della natura, talvolta ponendosi al di
fuori e al di sopra di tutti gli altri organismi viventi e non viventi, l’essere umano
si trova ad avere la consapevolezza di essere un abusatore, piuttosto che un fruitore.

2. I limiti politici della teoria del primato dell’uomo sulla natura

La concezione, diffusa per anni, che non soltanto la natura terreste, ma l’uni-
verso intero sia stato creato per l’uomo e per i suoi bisogni e che per questa ragione
egli sarebbe considerabile misura di tutte le cose, è stata motivo di lunghi dibattiti, sia
teoretici che politici, che hanno visto il cosiddetto antropocentrismo distinguersi in due
posizioni: una forte ed una debole.
La posizione antropocentrica cosiddetta forte è stata descritta come vero e
proprio “sciovinismo umano”6 e rappresenta una tra quelle posizioni che, sul piano
degli esiti morali e normativi, arrivano a sostenere in modo inequivocabile “il primato morale assoluto della specie umana”7, relegando la natura (con i suoi stessi
esseri viventi e animali non umani) ad alterità totale, ovvero ponendola nel recinto
dell’indifferenza morale. Questa posizione, quindi, finisce per legittimare ogni tipo di
sfruttamento, anche estremo, in nome dell’unico criterio morale della utilità di chi
domina, integra, progetta e sfrutta ai propri fini.
Un’ulteriore legittimazione, seppur più morbida, agli interventi antropici
sull’ambiente deriva dalla diffusa concezione classica che la natura sia finalizzata
all’uomo. Espressa assai bene già da Aristotele, tale visione pone una gerarchia tra
gli enti rispetto all’essere, per cui: “Le piante esistono in vista degli animali e gli altri
animali in vista dell’uomo… Se la natura non fa nulla di inutile né di imperfetto, è
necessario che essa abbia fatto tutte queste cose in vista dell’uomo”8. Tale conce-
zione, che Senofonte ritiene propria anche all’insegnamento socratico e addirittura
colloca in un orizzonte religioso, quasi a riprova dell’esistenza delle divinità (l’esi-
stenza di una divinità provvidente è dimostrata dal fatto che gli animali “nascono
e crescono a vantaggio dell’uomo”, Senofane, Memorabili, IV, 3, 10), diviene carat-
teristica dello stoicismo, come appare dal frammento 1153 di Crisippo, conservato
da Cicerone, De natura deorum II, 14, 37 (“Tutto … è stato creato in funzione di
qualcos’altro: le messi e i frutti che la terra produce furono creati per gli animali,
gli animali per gli uomini”). Così, Plinio il Vecchio (Storia naturale XVIII, 1, 2-5),
mentre stigmatizza il comportamento degli uomini, rei, a suo dire, di inquinare i
fiumi e gli elementi naturali e di avvelenare persino l’aria che è loro indispensabile
per vivere, confida nella magnanimità della natura (ormai qualificata da caratteri-
stiche di autonomia e quasi divinità), affinché continuamente sostenga la necessità
dell’uomo a perseguire il progresso, che “renderà migliore la vita”.
Oggi, a seguito delle teorie – debitrici della cosiddetta ecologia profonda – de-
nominate antropo-decentrismo, al di là del parziale recupero di diritti dell’ambiente, o
anche degli animali…, siamo solo apparentemente lontani da queste antiche e per-
sistenti concezioni. Infatti, benché siano sempre più pregnanti concezioni volte a
superare l’idea di sfruttamento e perfino difruizione dell’ambiente, per valorizzare
invece quella di un’autentica etica dell’ambiente9 – secondo la quale gli enti naturali,
e non solo l’uomo, hanno un valore intrinseco e, in quanto tali, devono essere de-
stinatari di un trattamento morale, a prescindere dal soddisfacimento di eventuali
interessi umani – nella realtà, l’ambiente naturale (quindi anche tutti i suoi “depo-
siti” culturali di suolo, territorio, natura…, come si è detto), è ancora il mezzo di cui
l’uomo si serve per raggiungere i propri fini, assunti come prevalenti o superiori10.
Per cui forse è più corretto sostenere che nell’attuale dibattito bioetico-cosmico si
persegue la versione debole dell’antropocentrismo, fatta propria da molte posizioni
dell’etica dell’ambiente, la quale sostiene che sia: “plausibile o necessario ammettere
l’esistenza di doveri umani almeno indiretti per la natura, o di una responsabilità degli
uomini per («for») la natura di fronte a tutti gli esseri umani, appunto nella misura in cui
un uso improprio, imprudente o poco illuminato dell’ambiente metta a repentaglio
questo o quell’interesse, bisogno o preferenza umani”11. La diffusione di questa
posizione è dovuta alla sua capacità di conciliare un certo grado di protezione nei
confronti della natura, alla quale viene riconosciuto comunque, se non proprio
una soggettività etica e giuridica, un valore soggettivo, e di mantenere, contemporane-
amente, determinate condizioni che soddisfino dei bisogni umani. Per quanto sia
ancora una posizione antropocentrica, questa “tutela di secondo grado”, assegnata
alla natura, riduce drasticamente il peso assegnato al pregiudizio antropocentrico.
Gli interessi umani, per la soddisfazione dei quali la natura deve essere tute-
lata, secondo queste posizioni, possono essere o di carattere materiale o di carattere
ideale. Le posizioni che fanno leva sul carattere materiale, possono essere definite
etiche della conservazione della natura, mentre quelle che valorizzano il carattere ideale,
sono dette etiche della protezione della natura12. Per le etiche della conservazione della natura,
essa viene considerata come un bene, che rappresenta la “pre-condizione per l’e-
sercizio di altri diritti”13, per l’ottenimento di altre tipologie di beni e per una libera
progettualità umana nei confronti della propria vita. Un bene, quindi, che deve
essere tutelato per garantire la tutela, prevalente, di tutti gli esseri umani, non sol-
tanto presenti, ma futuri, stante il presupposto che tutti i futuri umani godrebbero
di pari diritto di fruizione della natura, così come ne hanno goduto le generazioni
precedenti. Secondo le etiche della protezione, invece, “la natura deve essere tutelata
dall’uomo, per soddisfare bisogni o preferenze umani che vanno oltre i bisogni
strettamente materiali”14.
In entrambi i casi, insomma, sussiste un presupposto: l’essere umano è ti-
tolare di una maggiore dignità sulla natura, ovvero ne è in qualche modo superiore.
Ma cosa ha contribuito a quest’affermazione di superiorità? Indubbiamente una
certa evoluzione culturale, risultata più evidente all’osservazione antropica ed etica.
Intendiamo con evoluzione, il passaggio da un’acquisizione di cognizioni generiche
relative ai vari campi del sapere, ad una specifica cognizione in campo tecnico e
sociale (ma il termine evoluzione dovrebbe perdere ogni connotazione che ne fa
sempre un progresso, mai un regresso o involuzione). L’anomala posizione dell’uomo
nella natura e le conseguenze che questa determina, infatti, deriverebbero dalle sue
capacità di evoluzione socio-culturale (adattamento, capacità di sopravvivenza, modalità
di conferimento di significato a sistemi percettivi non umani, uso tecnologico di
altri sistemi non umani…). Frattanto, però, l’impatto culturale esercitato dall’uomo
sulla natura è universalmente riconosciuto come sempre più allarmante, cioè tale
da minacciare fortemente, se non la nostra stessa sopravvivenza, almeno la qualità
della nostra vita15. È la prima volta, infatti, nella storia della vita sulla terra, che una
singola specie, quella umana, è in grado di influire così radicalmente sul destino di
tutte le altre, animali e vegetali, sconvolgendo, distruggendo interi ecosistemi, in
nome della propria capacità di gestione, produzione, invenzione, massimizzazio-
ne del profitto, estremizzazione del benessere antropico. È forse nello specifico
umano la ragione della crisi ambientale, riconosciuta come la massima emergenza
planetaria attuale?
La consapevolezza della fondatezza di quest’interrogativo genera, quindi, la
necessità di una presa di coscienza del fatto che la cultura antropica, oggi in atto –
peraltro affidata a forme di potere che sono in grado non soltanto di padroneggia-
re, ma di spadroneggiare sulle stesse forme di vita (basti qui accennare alle riflessioni
che da Foucault in poi sono proposte dalla biopolitica) – potrebbe essere troppo
perturbante per la natura (intesa nella maniera complessa che si è detto), così da
risultare lesiva, se non addirittura distruttiva, per certe forme di vita, per il territorio,
per la stessa vita umana e, conseguentemente, per gli stessi equilibri naturali. Ecco,
allora, prendere forma nel dibattito biopolitico l’esigenza di un cambiamento di
paradigma culturale. Secondo il corrente modo di esprimersi, si tratterebbe della ne-
cessità di mettere in atto un progressivo slittamento da un atteggiamento marca-
tamente antropocentrico a uno bio- (o eco-) centrico. Slittamento non facilmente
raggiungibile, perché ogni specie, fondamentalmente, tende a essere centrica.

3. Le scienze giuridiche e politiche al bivio?

Vi è un’indubbia differenza tra chi progetta e chi usa i prodotti della tecnolo-
gia avanzata o, come si dice, della tecnoscienza. Altra è, infatti, la posizione di chi com-
prende, sul piano teorico, il nesso tra potere e sapere, altra quella di chi, detenendo
i mezzi finanziari ed economici per produrre, finisce per apprezzare solo il potere
che gli deriva dall’utilizzo della tecnoscienza. Ciò impone di prendere atto del pote-
re che viene oggi esercitato sulla regolazione, non soltanto dei mezzi di produzione
e trattamento della natura, ma degli stessi rapporti umani, i quali sembrano esigere
sempre di più l’avvio, prima teorico, poi operativo, di un nuovo processo di libera-
zione, come viene osservato particolarmente dagli studiosi di bioetica e di biopoliti-
ca: “Dentro questa differenza sorgono le diverse immagini della tecnica e della loro
connessione, pratico-teorica, con il tema della liberazione. […] Se oggi guardiamo
ad alcuni dei risultati di questo enorme impegno dell’uomo occidentale (i grandi
vantaggi per l’esistenza umana guadagnati attraverso lo sviluppo tecnico-scientifi-
co), possiamo notare come si siano, di fatto, rese disponibili nuove forme di libe-
razione da alcuni dei vincoli più evidenti della condizione umana”16. Ad esempio,
grazie ai risultati tecnoscientifici, il vincolo spazio-temporale si è ridotto sia per i
mezzi di trasporto, sia per quelli di informazione e perfino per le prassi zooprofi-
lattiche e mediche; inoltre, anche i vincoli biologici si riducono progressivamente
per mezzo delle biotecnologie applicate alle forme di vita vegetale, animale e alla
vita umana. Nelle biotecnologie, altresì, risulta palese la profonda mutazione delle
capacità di dominio della realtà microscopica, che può essere sempre meglio sottomessa
agli interessi dell’uomo, o meglio dell’uomo che possiede i capitali per produrre e gestire i propri interessi (o anche i propri desideri). Non trascurabili, infatti,
sono gli ingenti interessi economici che si sono costruiti negli anni, per esempio
intorno alle biotecnologie, soprattutto quelle innovative e genetiche, sia nei cam-
pi della conservazione del germoplasma animale, sia in quelli del miglioramento
delle tecniche di produzione e allevamento. Interessi che si sono progressivamen-
te sostituiti alle finalità scientifiche soltanto teoriche nei laboratori di ricerca, con
non poche conseguenze sui piani etico-sociale, politico, gestionale: “L’intreccio tra
i grandi interessi economici e finanziari ed i poteri forti (che ne sono condizionati)
ha la capacità di imporre consumi, modelli di vita, persino valori di riferimento a
generazioni malleabili, divenute quindi disponibili ad accogliere orientamenti etici
favorevoli alla speculazione commerciale dei progressi delle biotecnologie, e d’altro
lato manipolabili dai poteri politici sovranazionali coordinati a quei grandi interessi
nel favorirne i traffici e trarne vantaggio per conseguire consenso e stabilità”17.
Siamo ormai lontani dai tempi in cui la natura (anche la stessa natura umana)
era ancora considerata un organismo immodificabile, allorché si interveniva per
curarla, non per trasformarla, oppure per potenziarla (enhancement), magari inven-
tando perfino una medicina migliorativa (non soltanto nel mondo delle prestazioni
sportive o estetiche). Non a caso prevalevano modelli teorici che presupponevano
un ordine standard immodificabile, a cui, sul piano normativo e sociale, lo scien-
ziato del diritto avrebbe dovuto riportare gli eventuali scostamenti da ciò che è retto,
ovvero ciò che si desse per natura (in nome di un’ontologia politica di tipo fissista,
che non ammette scostamenti rispetto a ciò che è stabilito una volta per sempre
e, quindi, va solamente attuato e messo in pratica). A voler essere più precisi, la
natura era considerata una peculiarità del potere divino, oppure un atto della po-
tenza della realtà naturale, considerata autonoma, a sé stante, in linea con l’antico
modello aristotelico di scienza, per cui per natura si danno alcuni accadimenti, la cui
regolarità e iterabilità il teorico dovrà scoprire e l’esperto di diritto dovrà realizzare,
mediante norme che creino coesione e ripristinino l’armonia primigenia, in caso di
deviazioni o difformità. Anche il corpo, inteso più come Körper che come Leib, era
pensato, per sua essenza, organico in maniera “standard”, non modificabile, tutt’al
più imitabile mediante applicazioni tecniche.
Le biotecnologie ultramoderne, oltre ad aprire nuovi sentieri tecnoscienti-
fici, cancellano questo antico paradigma di pensiero. Difatti, esse sono in grado
d’intervenire nella struttura stessa dell’essere vivente, sia non umano che umano,
donando allo stesso uomo la possibilità di trasformare-creare (produrre da capo,
ibridare, clonare, modificare geneticamente sia nella linea somatica che in quella
generazionale…) l’essere umano: nel momento in cui (a metà del secolo XX) si è
riusciti a scindere e a ricomporre gli elementi fondamentali di un genoma, s’infran-
ge l’originaria identità dell’essere in generale e dell’essere umano in particolare. Da
un’identità organica, acquisita nel concepimento, si è passati all’individuo program-
mabile scientificamente, ad esempio tramite l’ingegneria genetica e la procreazione
medicalmente assistita. Così, l’uomo sta cedendo alla tecnoscienza – gestita da altri
suoi simili, che finiscono per appartenere a una sorta di “specie più avanzata ed
evoluta” – il più grande dei poteri dell’antica physis: quello di generare.
Tutto questo sta rappresentando un mutamento tracciato dal progresso
scientifico e tecnico sia nei rapporti tra uomo e ambiente, sia nei rapporti inter-u-
mani e, di conseguenza, anche nei rapporti giuridici e negli assetti sociali e politici.
Di qui una serie d’interrogativi che interessano molto il teorico del diritto e della
politica: è realmente tutto ciò che fa sentire l’uomo accresciuto nella sua libertà? I
risultati, a cui è giunta la tecnoscienza oggi, possono rappresentare il compimen-
to dell’idea di Sartre che l’uomo è “ciò che si fa”18, nella totale espansione della
sua libertà fino al superamento del limite dell’umano? A chi assegnare i compiti
di regolare le sempre più ampie scelte e a quale potere riconoscere il compito di
assecondare o frenare quanto è sempre più possibile sul piano tecnoscientifico?
Sarà necessario prendere atto del potere illimitato del cosiddetto nuovo demiurgo tec-
noscientifico?
I Comitati di bioetica, nel mondo occidentale e, più ampiamente, consumi-
stico, sono stati escogitati come ambienti pluralistici (nelle competenze scientifiche,
nelle persone, negli intenti, nella appartenenze morali) per reperire strategie, anche
di tipo normativo, allo scopo di verificare scientificamente le pratiche (non soltanto
sanitarie) e limitare, in qualche modo, i margini di potere del nuovo demiurgo, finendo,
però, per diventare in più casi come dei “grilli parlanti”, inascoltati e inopportuni,
anche da parte di chi ha il compito di produrre leggi e normare prassi nella civiltà
ipertecnologica e utilitaristica. Intanto, però, nelle collettività più ampie, continuano
a sussistere interessi di ordine generale – tutelati dagli stessi Comitati di bioetica e
ancora richiamati in Dichiarazioni, Trattati e Leggi, anche sovranazionali –, che
vengono codificati nel gergo dei cosiddettidiritti umani, i quali risultano ri-affermati
costantemente, non soltanto nelle situazioni di violazione, per così dire, tradiziona-
le della dignità umana (si pensi alle diverse forme di schiavitù, oppure alle situazioni
di conflitto bellico, tutt’ora in corso), ma anche di fronte ai nuovi rischi comporta –
ti, appunto, dalla rivoluzione tecnoscientifica attuale, che rischia di sovvertire non
soltanto il rapporto tra uomo e natura, a svantaggio, ancora una volta, della natura,
ma anche di subordinare la realtà naturale umana ed animale agli interessi di nuovi
potenti, identificabili in quelli che detengono il potere finanziario ed economico.
La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, promulgata a Nizza il 7 dicembre
2000, non a caso affermava, nell’articolo 3, alcuni principi certamente condivisibili,
ma forse ancora incapaci di fronteggiare il velocissimo potere della tecnoscienza,
frattanto sempre più lontana dai problemi morali che, nel tempo, sono stati solle-
vati per mettere in discussione le sue procedure e i suoi risultati, e di fronte a un
potere economico che, quando riscontra vantaggi, non limita la ricerca, anzi la
finanzia e la incoraggia fino al paradossale. L’articolo 3 della Carta sottolineava,
infatti, il “diritto all’integrità della persona”, ed affermava: “1) Ogni individuo ha
diritto alla propria integrità fisica e psichica. 2) Nell’ambito della medicina e della
biologia devono essere in particolare rispettati: a. il consenso libero e informato
della persona interessata, secondo le modalità definite dalla legge; b. il divieto delle
pratiche eugenetiche, in particolare di quelle aventi come scopo la selezione delle
persone; c. il divieto di fare del corpo umano e delle sue parti in quanto tali una
fonte di lucro; d. il divieto della clonazione riproduttiva degli esseri umani”19.
Le due questioni enunciate dal testo normativo sovranazionale (quindi, con
problemi di recezione giuridica ed effettiva nelle Nazioni dell’Unione) restano
di ordine teorico e, insieme, applicativo, com’è tipico di quella che abbiamo fin
qui tratteggiato come la condizione tecnoscientifica contemporanea. Essa chia-
ma sempre più in causa le scienze giuridiche ed etiche, per affrontare le questioni
dell’eugenetica e del corpo vivente (animale ed umano) considerato fonte di lucro.
Jürgen Habermas, riflettendo su questi medesimi problemi, aveva evidenziato, ap-
punto, i prodromi di una nuova sfida in atto tra scienza ed etica: quando tentiamo
di circoscrivere gli interventi di ingegneria genetica (tecnoscienza), per escludere
quelli di eugenetica (etica), ci troviamo di fronte a confini difficili da determinare
che, sul piano delle trasformazioni dei paradigmi scientifici e tecnologici, hanno
dato luogo, come si osservava, a nuove metodologie, con relative teorie di riferi-
mento. Il punto è che, invece, avremmo bisogno di confini precisissimi per stabilire
ciò che è cura della malattia, o lotta alla patologia e ciò che, invece, è eugenetica stric-
to sensu. La situazione di dilemma circa la via da prendere sul piano sociale, normativo
e politico, diventa, forse, un’opportunità per quella concezione libertaria moderna,
che rimetteva le decisioni scientifiche alle valutazioni individuali, implicando un
risultato in cui un diritto personale sovrasta i fondamenti naturali della vita: “Nella
diagnosi del reimpianto dell’embrione”, sottolinea infatti Habermas a proposito
delle cosiddette tecniche di procreazione medicalmente assistite, “risulta già oggi
difficile rispettare i confini che separano l’eliminazione di predisposizioni genetiche
indesiderate dalla ottimizzazione di predisposizioni desiderabili”20.
Ma sarà mai possibile demarcare (come voleva già la scienza giuridica mo-
derna) i campi di ricerca e di produzione, in una situazione ormai irrimediabile
di ibridazione e polverizzazione dei saperi? Non è forse l’ibridazione dei saperi
scientifici e tecnici il principale apporto della rivoluzione scientifica postmoderna,
di cui anche il diritto dovrebbe tener conto? E ancora: può una tale problematica
(stabilire ciò che è cura della malattia e ciò che invece è eugenetica) essere affidata
alla legislazione politica che, negli Stati di diritto, ha la competenza della produzio-
ne delle norme? “E se questa fosse, appunto, la risoluzione del problema, su quali
principi etici si baserebbe la legislazione politica per disciplinare la problematica
delle biotecnologie? Sappiamo che esistono centri di ricerca che lavorano per ripro-
durre, clonare organi umani, senza ovviamente avere l’autorizzazione di legge per
tali ricerche”21. Del resto, conosciamo prese di posizione di scienziati e di enti non
europei che, senza scrupolo o vincolo giuridico alcuno fissato da Comitati di tipo
occidentale, parlano di necessità di controllo dell’evoluzione stessa, da sottrarre al
caso e alle sue leggi piuttosto lente e affidare, piuttosto, alle sapienti mani dei ricer-
catori e degli scienziati liberi da qualunque vincolo sociale e politico: “È evidente che, in questi centri di ricerca, ciò che viene innanzitutto trasformato è la percezio-
ne culturale della vita umana. Questo significa che qualsiasi legislazione non potrà
che drammaticamente inseguire e cercare di mettere ordine a tale mutamento di
visione della vita dell’uomo. Allora la domanda diviene: come intendiamo pensare
noi stessi? Come possiamo esistere in una comunità morale che considera, per
principio, le persone nella loro “integrità fisica e psichica” (cioè determinata dal
suo naturale patrimonio genetico), mentre la ricerca scientifica (in particolare le
bioingegnerie) tende a ignorare o rifiutare tale principio?”22.
Non è una novità che le volte in cui si pone un problema relativo all’op-
portunità o meno di intervenire per curare malattie con procedure di ingegneria
genetica, si inneschi, sul piano teorico e normativo, un acceso dibattito tra pro-
gressisti e conservatori, volto a favorire/non favorire la volontà di difendere la
propria opinione, quale espressione della libertà del proprio pensiero etico, oltre
che le proprie metodologie scientifiche e teorie generali del sapere: “E neppure
è un caso che, dalla parte dei conservatori, si trovino coloro che hanno una fede
religiosa: posizione apparentemente conservatrice, in realtà antagonista al relativi-
smo progressista del “fai da te” etico. Oggi la religione si presenta come una difesa
culturale della nostra tradizione umanistica contro un postumanesimo scientista,
e se nel nostro Occidente laico e secolarizzato non ci fosse ancora un sentimento
religioso scomparirebbe qualsiasi dialettica sull’opportunità o meno di servirsi della
biogenetica per la cura dei malati”23.
È necessario individuare un equilibrio fra i poteri (economici, politici, scien-
tifici, etici), una reciproca limitazione delle loro forze, cosicché nessuna prevalga
sulle altre, praticando una modalità di scienza in grado di ritrovare l’armonia tra
sistemi antropici, animali e territori? È, forse, questa la sfida più impegnativa che
gli ordinamenti giuridici devono oggi fronteggiare e che i teorici del diritto devono
sempre di più mettere a fuoco nei loro nuclei teoretici e possibili soluzioni giuri-
diche. Eppure, il percorso per giungere ad una corretta riflessione sui diversi lati
della discussione sembra non poter fare altro che passare attraverso la limitazione
di alcuni diritti umani, che tuttavia erano nati e sono stati riconosciuti proprio a
motivo dell’incalzare dei progressi tecnoscientifici. Di qui una peculiare situazione
apparentemente senza via d’uscita, in quanto si rischia, per affermare la fondatezza
di nuovi diritti, di doverne limitare altri, appartenenti a precedenti generazioni sto-
rico-sociali e storico-economiche.

4. Meglio parlare di doveri?

Alcuni studiosi di simbolica giuridica e politica suggeriscono, perciò, di ag-
girare l’impasse, ritornando a parlare di doveri, prima che inventare sempre nuove
generazioni di diritti umani degli animali e perfino dell’ambiente. Il carattere pe-
culiare dei diritti si desume dal modo in cui essi si sono affermati nella modernità
del XVIII secolo, mostrando da subito la loro natura politica. In quanto richiesta
politica, infatti, essi furono espressione di rivendicazione di gruppi o di interi po-
poli, rispetto (spesso in dissonanza) ai poteri prevalenti. All’affermazione moderna
dei diritti, si è spesso affiancata la legge del più forte, quella che impone erga omnes
il proprio potere (fisico, finanziario, economico, militare, politico…) e, dunque, il
proprio modello di civiltà, che implica anche le forme per imporne l’osservanza
generalizzata. Per dare riscontro a ciò, basta analizzare la prima genesi dei diritti
moderni, e, quindi, è sufficiente ripensare prima alla rivoluzione americana e poi
a quella francese, per osservarne già la diversità di genesi e di motivazioni ideali:
“[…] se una differenza deve essere rilevata tra lo spirito che ha animato la dichia-
razione dei diritti francesi e quello della dichiarazione americana, bisogna mettere
in evidenza caratteristiche alquanto scontate; mentre il primo (francese) è dipen-
dente da elaborazione intellettuale e da un programma politico-istituzionalistico
eversivo degli ordini vigenti, il secondo (statunitense) è più legato alle coscienze
e alle convinzioni morali, che ne hanno fatto in tutti i sensi una religione civile, di
cui le istituzioni sono una sorta di prolungamento tutorio. Si potrebbe parlare di
un’ideologia più intima e interiorizzata nell’area anglosassone, quindi meno dettata
da sentimenti rivendicativi immediati, e di un’ideologia più strumentale nell’area
francese e quindi ben più radicalmente segnata dalla politicizzazione”24. I caratteri
di politicità rivendicativa, che nell’area statunitense non si mostrano nel loro costituirsi,
compaiono in seguito e si esplicano nei cosiddetti diritti umani.
Nella medesima stagione moderna-contemporanea, che ha portato alla te-
orizzazione e all’affermazione dei diritti, il dovere, invece, sembra meno fortunato
o affermato, anche se potrebbe vantare una priorità storica e una logica sui diritti
dell’uomo: “L’affermazione di un diritto può fondarsi solo sul rispetto di un do –
vere, quindi sul dovere; del resto un dovere può essere assunto o sentito indipen-
dentemente dall’esistenza di un diritto”25. I moderni diritti umani, dichiarati come
irrinunciabili, manifestano, così, il loro carattere rivendicativo senz’ancor rendere
chiaro chi, dall’altra parte, dovrebbe farsi concretamente carico del loro adem-
pimento nelle società complesse, nelle collettività tecnoscientifiche, nelle società
opulente alle prese con le discussioni sui limiti della tecnica a fronte del degrado
delle relazioni inter-umane e con la natura. Discutere della eventuale priorità dei doveri
diventa, perciò, oggi essenziale nelle teorie politiche, perché la scelta di una priorità
implica una determinata tendenza etica e, di conseguenze, determinate scelte nelle
prassi normative, sociali ed economiche (per esempio, scelte sanitarie o zoopro-
filattiche): “Affermare la priorità dei diritti sui doveri, come molti sanno, significa
imporre corrispettivamente dei doveri, sottraendoli alla sfera morale e rendendoli
obblighi esterni. […] La priorità dei diritti sui doveri, se vuole confutare l’accusa di
subordinare la morale alla politica, è costretta a dichiarare quali siano i fondamenti
di tali diritti”26. Al pari dei diritti, anche per i doveri la scelta dei fondamenti appare
oggi, come nella epistème classica, sempre o metafisica, o ideologica. Fattori che,
come si è già osservato a proposito della genesi delle metodologie tecno-scienti-
fiche moderno-contemporanee, sono progressivamente caduti in crisi, a seguito
dell’emergere del relativismo e dalla crisi della metafisica. Ma, se si riflette bene, a
differenza dei diritti, il dovere chiama direttamente in causa il soggetto che deve
rispettarlo, sia umano-simbolico che, più in generale, percettivo (come lo sono gli
individui animali e gli stessi sistemi vegetali). Inoltre: “la priorità del dovere corro-
bora per sua natura il principio di responsabilità, senza il quale anche ogni teoria
dei diritti è vanificata”27.
In una società in continuo mutamento, come quella odierna, l’estensione dei
diritti va diventando, spesso, il frutto delle pressioni sociali e degli interessi politici,
tanto che le rivendicazioni che li alimentano non sono totalmente adeguate agli
oneri che impongono, come si è osservato in alcune esemplificazioni della so-
cietà ipertecnologica. Non solo. Tali rivendicazioni sono volute a tutela pressoché
dell’uomo, che è parte di quel sempre più complesso sistema di relazioni in cui i
diritti umani si trovano coinvolti.
Dinanzi all’eterogeneità, sia dei soggetti sia delle istanze, la nozione di essere
umano va sottoposta a diversi interventi ermeneutici, ma ciò richiederà, forse, un
ritorno alle istanze pre-scientifiche, allorché si riteneva, come si è visto, di poter
cogliere delle ricorrenze “per natura” di determinati fenomeni storici e culturali?
Se ci si attiene alla situazione tecnoscientifica in corso, resta la via della definizione
di uomo in senso fisiologico, ma essa, in sintesi, dipenderà da accordi e decisioni,
da assumere all’interno della cosiddetta comunità scientifica e, tutt’al più, tecnologica
o tecnoscientifica. Ciò appare a molti inevitabile, data la pressione da parte delle
biotecnologie innovative e, soprattutto, dei loro committenti e detentori.
Non dimentichiamo, tuttavia, che una già complessa definizione di persona,
che è causa di numerosi dibattiti, risulterà ancora più complessa, una volta che
si decidesse d’intervenire tecnicamente per la modifica dei caratteri genetici, non
soltanto nella linea somatica, ma in quella germinale. Ciò causerà sempre nuove
istanze di “elevazione a soggetto di diritto”, perché vi saranno nuovi soggetti –
anche soggetti sub-umani o iper-umani, o almeno soggetti ibridi – che, infatti, en-
treranno, come già ambiscono, nel circuito dei diritti. Da tempo, per esemplificare,
sono in discussione i criteri per stabilire quando un uomo può definirsi morto, dal
momento che le terapie accanite, i trapianti di organo e le sostituzioni di funzio-
ni organiche, rinviano ad una decisione non più solo scientifica o ontologica, ma
deontologica (un decesso, quindi, è ormai divenuto un evento solo normativo e
non più naturale, in cui è in gioco soprattutto il reperimento dell’organo deputa-
to alla morte dell’intero umano). Ecco perché si può ben ritenere oggi essenziale
che ogni individuo, in quanto parte di una comunità, debba venire a conoscenza
(anche in senso epistemologico e metodologico) del proprio dovere verso l’altro
(inglobando nell’alterità tutti gli altri biosistemi organici e inorganici), ancor prima
di conoscere l’elenco dei propri diritti garantiti dalla collettività nazionale e inter-
nazionale. Ciò assicurerebbe una maggiore autoregolazione della società rispetto
a una modalità in cui ogni individuo chieda solo quali siano i propri diritti. Sentirsi
investito solo di diritti, significa imporre ad altri, soprattutto se meno rilevanti sui
piani sociale, politico ed economico, dei doveri.

5. Oltre l’età dei diritti, l’istanza dei doveri e della comunità

È ben noto che la questione intorno ai diritti umani si fa assai presente,
sul piano politico internazionale, dopo il secondo dopoguerra. Da allora, segui-
rono più avvenimenti, tra cui la proclamazione dei diritti nelle carte costituzionali
di quei Paesi che avevano riconquistato la libera vita democratica. Oltre a ciò, i di-
ritti dell’uomo sono stati proclamati nella Dichiarazione Universale dei Diritti da parte
dell’ONU nel 1948, e, per l’Europa, nella Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo del
1950, cui sono seguite la Convenzione Americana del 1969 e la Convenzione Africana
dei Diritti degli Uomini e dei Popolidel 1986. Vanno ricordate, inoltre, dichiarazioni a ca-
rattere specifico, come quella dei Diritti del fanciullo del 1959, quella sulla Eliminazione
della discriminazione nei confronti della donna del 1967, quella dei Diritti del minorato mentale
del 1971. Non solo. Ciò che caratterizza la teoria dei diritti, oggi, è l’allargamento
progressivo della cerchia dei soggetti di diritto, nella direzione dei non-umani e
della stessa natura, come in precedenza descritta. È, infatti, possibile considerare
soggetti di diritto anche i cosiddetti “umani marginali”, come i minorati mentali,
i pazzi e i bambini molto piccoli. Non solo. Oggi, tra i nuovi soggetti di diritto, si
collocano le future generazioni e gli embrioni (soprattutto quelli prodotti ma non
innestati in utero), gli animali non umani e l’ambiente28. Non dimentichiamo che
Hannah Arendt, in Le origini del totalitarismo, sostenne che “il diritto ad avere diritti,
[…] dovrebbe essere garantito dall’umanità stessa”29.
La storia dei diritti dell’ultima fase del Novecento è stata caratterizzata dal-
le rivoluzioni, insorte nel periodo, delle donne, degli ecologisti, degli omosessua-
li, della scienza e della tecnica… La libertà s’incarna ormai nella diversità sessuale,
nell’attenzione per il corpo, nel rispetto per la biosfera, nell’uso non aggressivo
delle innovazioni scientifiche e tecnologiche… Quanto detto, serve a sottolineare
l’entrata definitivanell’età dei diritti30, oggi divisi addirittura in generazioni. Ed è così,
che accanto ai diritti di “prima generazione”, quelli cioè di libertà, a cui abbiamo
fatto già cenno, si sono affermati quelli di “seconda generazione”, ossia quelli po-
litici (diritto all’autonomia) e sociali (diritto al lavoro, alla casa, alla salute, alla istru-
zione). Di seguito, si sono aggiunti i diritti di “terza generazione”, i diritti, ovvero, di
solidarietà, il diritto allo sviluppo, alla pace internazionale, ad un ambiente protetto,
alla libertà di informazione e, poi, i diritti in cui il soggetto è rappresentato dagli
individui in quanto gruppi, come la famiglia, la nazione, l’umanità tutta. Ultimi,
almeno per adesso, troviamo i diritti di “quarta generazione”, ovvero quelli che
potremmo chiamare bioetici, strettamente collegati con lo sviluppo di nuove tec-
nologie soprattutto nel campo biologico e medico, oppure in campo biologico e
zooprofilattico. Sono piuttosto noti gli effetti della ricerca biologica e degli studi
che si stanno facendo sul patrimonio genetico, molte dei quali tra alcuni anni po-
trebbero essere ben accetti dall’umanità (le cui tematiche fanno ormai pensare a un
futuro costituirsi dei diritti di “quinta generazione”). Al pari degli altri diritti (prima,
seconda e terza generazione), anche i “nuovi diritti” (quelli di quarta generazione
o delle generazioni a venire) vanno considerati come altrettanti strumenti di tutela,
elaborati di volta in volta dalla scienza del diritto e dalla scienza della politica, degli
individui contro il potere, sia economico sia tecnologico, che sottovaluta le esigenze
dei singoli individui. Questo parlare di “generazioni” non deve indurre a pensare
che ogni nuova generazione condanni all’obsolescenza tutte le precedenti. I diritti,
così distribuiti, si riunificano intorno alla persona e si presentano come indivisibili.
La richiesta di nuovi diritti solleva, tuttavia, come si accennava, una grave
aporia sui piani delle teorie morali e politiche: se tutti questi diritti sono tutti fon-
damentali, alla fine niente risulterà fondamentale. D’altra parte, è intuitivo che i di-
ritti umani non possono essere tutti di eguale peso normativo, soprattutto quando
sono in tensione gli uni con gli altri. Alain Laquièze ha sostenuto che quanto più
il predicato ‘fondamentale’ si amplia, includendo una quantità crescente di diritti
soggettivi, tanto più aumenta la necessità di relativizzarli e condizionarli ad altri
diritti concorrenti31. Si osserva, inoltre, che l’inflazione normativa, prodotta a ga-
ranzia della tutela di questa pletora di diritti, può rendere problematica l’effettività
dei nuovi diritti e l’individuazione dei soggetti istituzionali provvisti della compe-
tenza necessaria per farli valere a livello nazionale e internazionale, posto il fatto
che esistono ormai dei veri e propri “scarti” continentali di soggetti non giudicati
dalle maggioranze degni di essere tutelati. I diritti vengono, così, adoperati in modo
aggressivo e con l’esclusivo scopo di far prevalere un interesse personale, senza
considerare più quello altrui. Ogni uomo si allontana sempre più dagli altri, ritiran-
dosi in un proprio mondo da dove impugna i propri diritti.
Ciò dovrebbe far riflettere che non nei diritti, ma nella comunità, risiede probabil-
mente l’unica salvezza per le persone. E in quanto parte di una comunità, l’uomo ha dei
doveri32.
membri della società, favorendo altresì il senso di appartenenza al corpo sociale,
del senso di responsabilità sentito da ogni persona verso gli altri membri della co-
munità umana e della comunità biotica. Negli ultimi decenni il diritto, prima d’essere
un principio a cui fare riferimento per sanare un sopruso, è diventato il luogo in
cui si sono accampate, di volta in volta, pretese e privilegi. Una serie di richieste più
o meno legittime, il cui incremento può causare l’incrinarsi dell’equilibrio demo-
cratico. La democrazia non può vivere di soli diritti. Questi diventano strumenti di
democrazia, quando possono contare sull’unità politica e sui doveri di solidarietà
su cui si fonda il processo di civilizzazione di un paese; altrimenti sono solo fattori
di egoismo individuale.

6. Per una conclusione provvisoria

Una politica dei soli diritti finisce col produrre una perdita tanto dei rapporti
sociali quanto di quelli politici e mette in crisi lo stesso assetto socio-culturale, nel
quale sorgono istanze solidaristiche nella tutela della salute o nel benessere degli
animali non umani, o anche la tutela del paesaggio e dei giardini. Tutti gridano il
proprio diritto, nessuno si occupa di quello dell’altro. E se la parola diritto fosse
sostituita con quella di dovere? Che effetto produrrebbe, reclamare il dovere a dare
e ricevere libertà, solidarietà e sussidiarietà, a dare e ricevere un ambiente protetto,
a dare e ricevere la pace, soprattutto nell’attuale assetto internazionale, nel quale
la globalizzazione economica e finanziaria ha provocato migrazioni di massa ed
ha acuito la forbice socio-economica tra chi possiede e chi è scartato? Con molta
probabilità, si rammenterebbe che quello che è necessario per noi, è indispensabile
anche per gli altri. È possibile, attraverso un’educazione al dovere, per esempio,
ritornare al legame con la comunità o a quel rapporto dialettico che il mondo sur-
moderno ha trasformato in rapporti liquidi (ovvero crescita del processo di indi-
viduazione)?33 Non è forse ripensando ai doveri che ci rendiamo conto che sono
essi, in ultima istanza, a fondare i diritti? Quando si rivendica il diritto alla libertà di
parola, non si sta forse sostenendo che ognuno dovrebbe sentire il dovere di lasciar
esprimere opinioni a tutti, anche ai senza voce e ai futuri abitanti del pianeta?
Vi è chi sostiene che modificare il proprio corpo con la tecnologia non sia
un vantaggio, ma un diritto. Certo, se c’è qualcosa che non piace, perché non mo-
dificarlo? Ma è pur vero che la riduzione del corpo a macchina alimenta la propen-
sione a trasformarlo sempre di più in strumento, attivando un controllo continuo
della persona, la quale viene espropriata del proprio corpo (nel senso di corporeità
individuale), il quale passa nella disponibilità di più soggetti. Ma quale può essere il
destino dell’individuo spossessato del proprio corpo? Quale il dovere della persona
di tutelare la propria identità? Il mondo dei diritti è un mondo oggi percorso da
conflitti e contraddizioni. Evidenziare pedissequamente le violazioni e le sconfitte
non può certo portare ad affermare che sia meglio eliminarle34. Sapere che vi è
un diritto violato significa denunciarne la violazione e agire affinché alle parole
corrispondano le realizzazioni. Diritti e doveri sono entrambi necessari per una
convivenza senza conflitti. Però, nella lista pressoché infinita dei diritti, abbiamo
sviluppato oltre misura la categoria dei diritti inviolabili e, forse, trascurato la cate-
goria dei doveri inderogabili, quindi eclissato le istanze etiche della coscienza mora-
le e della decisione libera. Ogni membro dell’umanità sa che ridurre in schiavitù un
uomo è atto spregevole perché verso qualunque uomo bisogna sentire il “dovere al
rispetto”, in quanto essere umano concreto, che, poi, coi diritti, diventa il diritto alla
tutela. È quel sentire comune che può andare oltre la legge e divenire concezione
universale. Si possono non rispettare i diritti che la legge impone, ma non si può
venir meno a un principio se la salvaguardia di quel principio è la salvaguardia di sé.
Il dovere impone giustizia.
Ma già i classici si domandavano, con una domanda ontologica, cosa sia la
giustizia,

Carmela Bianco

Note

1 S. Iovino, Filosofie dell’ambiente, Carocci, Roma 2004, p.18.
2 Ivi, p. 17.
3 Ibidem.
4 G. Limone, I molti nomi della terra, i molti nomi della verità. Riflessioni su una metafora nascosta,
in G. Limone (a cura di), La forza del diritto, il diritto della forza, L’Era di Antigone, Quaderni
del Dipartimento di Giurisprudenza della Seconda Università degli Studi di Napoli, n. 7,
Franco Angeli, Milano 2013, pp. 45-56.
5 S. Bartolommei, Etica e natura, Laterza, Bari 1995, p. 17.
6 Ivi, p. 45
7 Ibidem.
8 Aristotele, Politica, Libro I, 8, 1256b, 30-35, trad. it. a cura di R. Laurenti, Laterza, Ro-
ma-Bari 1993, p. 17.
9 Ivi, p. 86.
10 Cf. J. Diamond, Il terzo scimpanzé. Ascesa e caduta del primate Homo sapiens, Bollati Borin-
ghieri, Torino 2001.
11 S. Bartolommei, Etica e natura, cit., p. 47.
12 Ivi, p. 48.
13 Ivi, p. 54.
14 Ivi, p. 48.
15 Cfr. R. Carson, Primavera silenziosa, Feltrinelli, Milano 1999.
16 A. Pessina, L’uomo e la tecnica: annotazioni filosofiche, in M. L. di Pietro – E. Sgreccia (a cura
di), Biotecnologie e futuro dell’uomo, Vita e Pensiero, Milano 2003, pp. 12-13.
17 G. Acocella, Eugenetica ed etica sociale nel «Mondo nuovo» di A. Huxley, su: file:///C:/Users/
kar/AppData/Local/Temp/3217-3304-1-PB.pdf, p. 87
18 J. P. Sartre, Lʼ esistenzialismo è un umanismo, Armando Editore, Salerno 2014.
19 Su: https://fra.europa.eu/it/charterpedia/article/3-diritto-allintegrita-della-persona
20 J. Habermas, Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale, in L. Ceppa (a cura
di), Biblioteca Einaudi, Torino 2010.
21 S. Zecchi, Paradiso occidente. La nostra decadenza e la seduzione della notte, Mondadori, Milano
2016, p. 145.
22 S. Zecchi, Restare umani o valicare il limite. Il dilemma delle biotecnologie, su: http://www.ilgior-
nale.it/news/restare-umani-o-valicare-limite-dilemma-delle-biotecnologie-1330923.
html, accesso del 19 luglio 2017 ore 17:26.
23 Ibidem
4 G. M. Chiodi, Precedenza dei doveri sui diritti, che per altro è meglio definire diritti fondamentali, in
Id (a cura di), I diritti umani: un’immagine epocale, Guida editore, Napoli 2000, p. 15. Sull’ar-
gomento si veda anche Id., Invito ad una critica dei cosiddetti diritti e ad una rinnovata attenzione
ai doveri, in L. Bianca – A. Catelani (a cura di), Giusnaturalismo e diritti inviolabili dell’uomo,
Università degli Studi di Siena, Arezzo 2009, pp. 49-60; Id., Improprietà dei diritti umani, in A.
Tarantino (a cura di), Filosofia e politica dei diritti umani nel terzo millennio. Atti del V Congresso
dei filosofi italiani. Lecce, 13-14 aprile 2000, Giuffrè, Milano 2003, pp. 67-93.
25 Ivi, p. 16.
26 Ibidem.
27 Ibidem.
28 Sull’argomento F. Del Pizzo – P. Giustiniani (a cura di), Bioetica, ambiente e alimentazione.
Per una nuova discussione, Mimesis, Milano 2015; Id.,Biosfera, acqua, bellezza. Questioni di bioetica
ambientale, Mimesis, Milano 2017.
29 Cfr. H. Arendt, Le origini del totalitarismo, trad. it. di A. Guadagnin, Edizioni di Comunità,
Milano 1996, p. 413.
30 N. Bobbio, L’età dei diritti, Einaudi, Torino 2005. Con l’espressione “età dei diritti”, ci si
riferisce alle discussioni sorte sull’“uomo della strada”, in termini soggettivi: ogni rivendi-
cazione morale, giuridica ed economica viene formulata nel linguaggio dei diritti, e non più
in quello della giustizia e del bene comune.
31 A. Laquièze, État de droit e sovranità nazionale in Francia, in P. Costa – D. Zolo (a cura di),
Lo Stato di diritto: storia, teoria, critica, Feltrinelli, Milano 2002, pp. 308-311.
32 E. Morin, Etica, Raffaello Cortina Editori, Milano 2005.
33 Z. Bauman, Modernità liquida, Laterza, Bari 2006.
34 Cfr. S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Laterza, Bari 2013.