“Giacomo Mancini, socialista, garantista e meridionalista militante ” Salvo Andò

tratto da “Mondoepraio”2022

Salvo Andò

Vent’anni fa moriva nella sua abitazione di Cosenza Giacomo Mancini, uno dei leader più prestigiosi del socialismo italiano del dopoguerra. Mancini è stato segretario del PSI, più volte ministro, sindaco di Cosenza. Era cresciuto in una famiglia socialista. Il padre, Pietro Mancini, avvocato penalista, fu il primo deputato socialista della regione calabro lucana. Si batté in Parlamento perché venisse finalmente soddisfatta la fame della terra, dei contadini, nodo cruciale della storia sociale della Calabria e del Mezzogiorono.

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Per la sua opposizione al fascismo fu arrestato, mandato al confino, dichiarato decaduto dalla carica di parlamentare. Fu vice, in seguito alla caduta del fascismo, presidente della Consulta, deputato alla Costituente (ove fece parte della Commissione 75), ministro nei governi Badoglio e Bonomi. Pietro Mancini ebbe una grande influenza culturale e politica sulla formazione intellettuale di Giacomo, trasmettendogli come valore inderogabile il forte senso dell’appartenenza politica. Ritenne che Giacomo, cresciuto in un ambiente familiare di forte convinzione socialista e antifascista, dovesse completare il percorso della sua formazione culturale in una città come Torino, che, tra le città italiane, era quella che si era meno piegata alla dittatura. Giacomo si laureò in Giurisprudenza.

Visse intensamente il clima culturale della città, e ciò rafforzò il suo antifascismo. Si avvicinò alle posizioni di giustizia e libertà.
Assolto il servizio militare, si trasferì a Roma. Entrò nel movimento della resistenza prendendo contatto con i gruppi di giustizia e libertà romani. Fu decisivo per le sue scelte di vita l’incontro con Giuliano Vassalli, capo dell’organizzazione militare socialista che lo prese come suo vice. Quando Vassalli fu arrestato e condotto a via Tasso, Mancini ne prese il posto. Divenne responsabile militare della zona di Prati-Trionfale dove la resistenza romana era particolarmente attiva. Alla liberazione di Roma Giacomo rientra a Cosenza dove decide di dedicarsi a tempo pieno all’attività politica. Partecipa alle lotte nelle campagne per fare rispettare i decreti del ministro dell’agricoltura calabrese Fausto Gullo, diventa consigliere comunale nelle elezioni amministrative del ‘46 a Cosenza e segretario della federazione provinciale socialista, partecipando attivamente alla riorganizzazione del partito – il PSIUP – a livello nazionale. Nel ’46, al Congresso del Partito socialista, si schiera con la mozione unitaria della sinistra capeggiata da Pietro Nenni e inizia un sodalizio con il leader socialista, destinato a durare tutta la vita, anche quando le loro scelte nel partito, organizzato attraverso le correnti, non coincidono; Mancini organizza una sua corrente autonomista, distinta da quella nenniana. È convinto che il frontismo sia segnato da una pesante arretratezza culturale e che la corrente di sinistra del Psi, filocomunista, via via stia diventando sempre più settaria

Nel ’48, Mancini si presenta alle elezioni politiche e viene eletto nelle liste del Fronte con un largo suffragio. Collabora con Nenni alla riorganizzazione del partito, dimostrando subito una forte vocazione organizzativa. È fermamente convinto che debba cambiare la forma stessa del soggetto politico, perché un partito di opinione non era in grado di assumere un ruolo da protagonista in una fase di transizione della vita politica, con la necessità di penetrare nella società, esprimendo una capacità di ascolto e di persuasione molto forte su un’opinione pubblica che voleva partecipare intensamente alla costruzione della nuova Italia. Ma è soprattutto convinto che il paese abbia bisogno di un partito socialista indipendente politicamente, capace di esprimere una sempre maggiore autonomia rispetto al Pci. Ritiene che da questo punto di vista abbia ragione Morandi nel puntare su una forte capacità organizzativa
del partito per garantirne la rinascita. Della politica frontista di Morandi, Mancini apprezza la visione meridionalistica industrialista, nonché la capacità organizzativa.

Rodolfo Mmorandi

Ritiene,tuttavia, che la scelta di alleanza con i comunisti, compiuta dai socialisti, inevitabilmente rafforzi la Dc come partito interclassista.Decide così, pur nel contesto del patto frontista, di presentare alle elezioni amministrative del ’52 la lista socialista in Calabria e in altre realtà del Mezzogiorno ove vi sono le condizioni perché i socialisti concorrano autonomamente. In Calabria apre, quindi, un contenzioso con i comunisti di Alicata, che volevano la lista unica senza articolazioni all’interno del Fronte. Mancini ritiene che una maggiore visibilità socialista all’interno di quello schieramento serva al Fronte per catturare il voto dei ceti medi. Entra nella Direzione del partito che cambia nome(da PSIUP a PSI) al congresso della scissione socialdemocratica, il XXV, che si apre il 29 gennaio 1947, schierandosi con la corrente di sinistra, “Compiti nuovi”, e diviene responsabile della politica meridionalista. Ritiene un grave errore la scissione di Palazzo Barberini, perché la battaglia socialista ha un senso solo nel partito socialista, il partito che si batte con grande determinazione per la Repubblica, per la Costituente, per garantire la discontinuità del nuovo Stato rispetto al fascismo ma anche rispetto all’italietta liberale.

L’impegno politico in Calabria per organizzare il PSI diviene prioritario, al punto che lascerà la direzione del partito, dove tornerà nel ‘49. Pare poco interessato ad una politica romana che, dopo la scelta frontista e la scissione, era sempre più preda di personalismi, di ambizioni carrieristiche, di congiure di palazzo. Ritiene di poter essere molto utile nel suo territorio promuovendo una forte politica meridionalista. Ma soprattutto comincia a maturare un sentimento di estraneità nei confronti dello schieramento frontista. È convinto che il frontismo sia segnato da una pesante arretratezza culturale e che la corrente di sinistra del Psi, filocomunista, via via stia diventando sempre più settaria, intollerante, insensibile alle ragioni del patriottismo di partito, perché interessata a garantirsi delle posizioni di rendita attraverso la subordinazione al Partito comunista di Togliatti. Ritiene insomma di potere essere molto più utile alla causa socialista consolidando una forza socialista in Calabria su basi fortemente autonomiste.

È un fatto che attraverso l’autonomismo nella sua regione, il Psi cresca più in fretta che nel resto del Paese. Quando Mancini torna nella Direzione nazionale, nel ‘49, si intesta una nuova linea di politica meridionalista, compatibile con il rinnovamento complessivo del partito Mancini è un meridionalista militante. In quanto tale non può essere neutrale allorché sono in gioco gli interessi della sua regione. Ha una visione sistemica dei bisogni del Mezzogiorno, ma ritiene che la Calabria sia la grande dimenticata dallo Stato e che si siano accumulati ritardi tali in termini di sviluppo da richiedere una mobilitazione di risorse molto forti della comunità nazionale per garantire uno standard appena dignitoso di fruizione dei diritti di cittadinanza.È convinto che occorra uno sforzo eccezionale per consentire a questo territorio di integrarsi in qualche modo nel sistema Paese. Si tratta di rendere vivibile la Calabria di guisa che si possa rimanerci a vivere senza essere condannati a subire le ingiustizie prodotte del sottosviluppo. Giacomo Mancini ritiene che dare chances di crescita alla sua regione contribuisca alla coesione del Paese.

Quando Nenni lo rimproverava di occuparsi troppo della Calabria, lui replicava che della sua regione non si sarebbe più occupato quando di essa si fosse occupato Nenni stesso. Il Mezzogiorno, per lui, aveva bisogno di un Partito socialista non prigioniero di un rivendicazionismo piagnone ma di una industrializzazione per competere con il resto del Paese. Su questi temi si confronta costantemente con Morandi, da cui però prende le distanze con riferimento al modello morandiano di Partito. La sinistra morandiana aveva ripreso in mano il partito al congresso di Firenze del 1947. Mancini ritiene che il Fronte Popolare freni le possibilità di crescita del Partito socialista. Ma è sempre più forte la convinzione che la linea autonomista sia quella vincente. In Calabria sotto la sua guida gli iscritti erano aumentati di quasi il 14%. Negli interventi di Mancini ai congressi il Mezzogiorno ha una posizione centrale, ma non è con l’assistenzialismo che se ne può cambiare il destino. Nei suoi interventi politici è sempre presente il tema del meridionalismo tradito. Al congresso di Milano dell’89 Mancini addirittura dedicherà il suo discorso agli impegni presi con le popolazioni meridionali anche dal Partito socialista che non sono state compiutamente onorati. Su questo punto c’è una convergenza significativa tra le posizioni di Mancini e quelle di Craxi nonostante i due leader siano stati in quegli anni abbastanza in conflitto con riferimento alla gestione del Partito, alla sua democrazia interna, al rapporto tra i socialisti e la Dc.

 Mancini divergeva da Morandi sul terreno ideologico

Mancini lamentava l’errore che le regioni meridionali avevano compiuto avendo abbandonato la cultura meridionalista. Ormai c’era un Mezzogiorno senza meridionalismo e tutto diventava più difficile. Le regioni meridionali litigavano tra loro per accaparrarsi le risorse, non essendo in grado di esprimere una posizione unitaria in grado di fermare la deriva nordista che con il successo della Lega era ormai definitivamente prevalsa nel Paese.

Congresso  di Milano

Il congresso del PSI di Milano nell’89 era stato preceduto dai congressi della Dc e del Pci e Mancini intervenendo sottolinea il silenzio delle due assise sulle questioni meridionali. Spiegava che c’era una contraddizione inquietante tra la preponderanza di presenza meridionale nei vertici democristiani di partito e la indifferenza che la Dc manifestava nei confronti della drammatica situazione delle regioni meridionali. La verità è che la Dc “elettoralmente tiene nel Mezzogiorno e sono le zone remote del Mezzogiorno a consentirle pur perdendo voti in altri territori di conservare la media elettorale di circa il 35%”. Insomma, la Dc fondava la propria centralità su un consenso elettorale che veniva dai voti che riusciva a raccogliere al Sud ma non fa per questo una politica di sviluppo. E il Pci non pare interessato a contestare questo tipo di vantaggio che la Dc continua a mantenere attaccandola sul tema del Mezzogiorno tradito. Devono essere i socialisti, incalza Mancini, a guidarne la rinascita se capaci di capire le ragioni per cui la Dc è forte in quelle zone pur tradendo gli interessi delle popolazioni. E per Mancini la Dc è forte in questa parte del Paese perché lo Stato è debole, perché esercita una gestione del potere che è al di fuori dello Stato, sopra lo Stato, contro lo Stato. Non si rafforza lo stato con interventi come quelli che spesso i prefetti sollecitavano soprattutto nella stagione degli anni di piombo, si è in presenza non più della sfida terroristica ma di una sfida ancor più difficile perché capillare, con forti radicamenti territoriali, quella portata alla convivenza collettiva dalla criminalità organizzata che è diventata potere economico grazie anche alla svogliata azione di contrasto esercitata dallo stato, percepito dalle comunità locali come più debole della criminalità organizzata. Solo bonificando il sistema istituzionale nel Mezzogiorno, e creando la diffusa convinzione che la legalità conviene, si può cambiare questo stato di cose. Mancini divergeva da Morandi sul terreno ideologico. Era convinto che dopo la morte di Stalin ed il rapporto di Krusciov al 20º congresso del Pcus, e soprattutto dopo l’insuccesso della legge truffa, i socialisti avrebbero potuto acquisire una vera centralità politica, aprendosi gradualmente ad un convinto dialogo con i cattolici, sollecitandoli ad una apertura a sinistra. Nel congresso di Torino del 1955, Nenni dedica una parte della sua relazione alla situazione degli operai nelle fabbriche, accusando di politiche discriminatorie il governo Scelba-Saragat. Ma affronta anche il tema delle distanze tra Nord e Sud. Parla di distanze africane e della necessità di trasformare il miracolo economico in progresso sociale, attraverso grandi riforme che possano via via redistribuire il potere e la ricchezza nella società italiana. Usa toni nuovi anche parlando dell’Alleanza Atlantica.

Pietro Nenni

Ipotizza una sempre più marcata azione difensiva dell’alleanza, che avrebbe potuto renderla accettabile anche ad una larga parte della sinistra. Mancini è entusiasta di questo nuovo approccio ai problemi della sicurezza che in un certo senso sdogana il Psi come partito di governo. Ma prende anche posizioni molto dure nello scontro che emerge dopo la scomparsa di Morandi nell’estate del ‘55, tra autonomisti e sinistra frontista. Ritiene che sia stata un’ottima scelta quella fatta il 7 giugno del ‘53 dal Psi che presenta alle politiche proprie liste. Mancini ottiene un successo personale nella sua regione essendo rieletto con quasi 23.000 voti. È sempre più vicino a Nenni dopo il suo ritorno in Direzione. Era convinto che bisognasse dare maggiore sostanza organizzativa alla corrente autonomista,considerato che lo scontro con la sinistra ancora frontista si faceva sempre più duro dopo i congressi di Venezia e di Napoli.

La posizione autonomista emerge come posizione maggioritaria. Ritiene che bisogna incalzare la sinistra frontista anche sul piano ideologico. Occorreva marcare la forte distanza esistente tra i valori del socialismo indissolubilmente connessi all’idea della libertà e il regime del terrore realizzato nell’URSS, a cui i comunisti italiani guardano come ad un faro di civiltà. Nenni si rende conto che Mancini, con le sue capacità organizzative, sia l’uomo adatto per affrontare con successo lo scontro con l’ala frontista che cercava la protezione da parte di Togliatti, da spendere poi a fini di lotta interna nel Psi. Ma è anche convinto che va cambiato il modello di partito. Bisogna combattere la visione burocratico-centralistica del partito morandiano, che di fatto affida tutto il potere all’apparato,a dei funzionari che controllano la macchina dando al Psi la fisionomia di una organizzazione chiusa, autoreferenziale. Si forma un asse tra Mancini e Nenni, per liquidare l’apparato morandiano, non allo scopo di avere vantaggi sul piano del governo del partito, ma per cambiare la natura del partito stesso, sostituendo al modello di ispirazione comunista un modello autenticamente socialista. Si tratta di cambiamenti che vanno nella direzione di un riavvicinamento tra Nenni e i socialdemocratici. Il ruolo di Mancini come organizzatore della componente autonomista dal congresso di Venezia al congresso di Napoli diventa sempre più rilevante. La sua linea pare vincente. Occorre creare un partito basato sul volontariato e non su un apparato di funzionari-dirigenti politici. I segretari di federazione devono essere espressione della società e non burocrati di partito.

Congresso di Venezia

Al congresso di Venezia nel ‘57 la scelta autonomistica era prevalente, ma in un certo senso deformata dalla selezione del gruppo dirigente, caratterizzata da una falsa unanimità. Insomma la corrente autonomista nel nome dell’unità del partito aveva rinunciato ad una conta che avrebbe creato forti tensioni. Ma già emergono a Venezia le correnti interne sempre più organizzate., Al congresso successivo (Napoli), la critica del burocratismo, del centralismo democratico diventa molto esplicita, crolla il mito della unanimità interna. Nella sua relazione Nenni attacca il centralismo democratico. Ricorda ai delegati che il Partito socialista non può essere qualcosa di distaccato dalle masse, non può essere una scuola per agitatori professionali, ma deve essere espressione autentica della classe lavoratrice organizzata per la sua emancipazione. Non c’è dubbio che l’opera di persuasione svolta in questo senso da Mancini sul leader socialista ha dato i suoi frutti. Insomma nei congressi di Venezia, Napoli e Milano il suo peso va via via crescendo. Mancini cura l’espansione della corrente autonomista, ma condanna la degenerazione della dialettica interna, che produce un frazionismo. Gli autonomisti ormai hanno in mano il partito, anche perché il settarismo della corrente di sinistra pare intollerabile. Al congresso di Milano, nel marzo 1961, è Mancini il vero regista. Egli promuove la svolta sul piano organizzativo del partito, che consente di coniugare unità, efficienza e democrazia interna. Si tratta di assicurare la libera circolazione delle idee. Siamo nel ‘61 alla vigilia del coinvolgimento dei socialisti nel governo nazionale. In questo contesto Mancini propone anche di dare piena autonomia all’organizzazione giovanile del dei futuri quadri del partito.

Congresso di Napoli 1959

Il partito spiegherà Mancini deve riuscire a collegarsi con la società, deve saper interloquire con le forze nuove che si muovono nelle fabbriche, nelle scuole ed uffici e sapere parlare a costoro di una prospettiva socialista. Era convinto che il socialismo fosse in grado di cambiare davvero le cose se attraverso le riforme avesse realizzato una reale eguaglianza tra gli individui, nel rispetto però della libertà da garantire a tutti. Il Psi non deve tollerare le prepotenze del potere, ma neppure i privilegi discendenti dal censo e dall’uso privato della forza. Il socialismo nato dall’ansia di giustizia deve redistribuire il potere nell’unico modo possibile, attraverso le riforme. E per fare ciò deve sapere governare. Spiegava che le riforme non possono attendere. E per fare le riforme bisogna essere forza di governo. Quella di Mancini era una cultura del fare che ha inciso in modo significativo sulle più importanti scelte compiute dai socialisti nel dopoguerra. Si è battuto per l’apertura a sinistra attraverso il dialogo con i cattolici sin da quando è stato eletto consigliere comunale a Cosenza. Deciso fautore dell’alleanza con i cattolici, fu ministro nel primo Governo di centro-sinistra. Riteneva strategica l’alleanza di centro sinistra la difese con fermezza tutte le volte in cui una parte della Dc creava problemi al Governo per indurre i socialisti a sbattere la porta e porre fine all’alleanza. Stava al governo, ma non era governista, perché riteneva che dovere dei socialisti fosse quello di stabilire con la Dc un rapporto competitivo. Nell’assolvimento delle responsabilità ministeriali, come Ministro della sanità, dei Lavori Pubblici, dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno ha stravolto l’organizzazione di quei ministeri grazie anche ai tecnici con cui collaborava. La sua caratteristica di uomo di governo è stata quella di agire con straordinaria tempestività per rimuovere inerzie e opacità del processo di decisione politica. Di fronte al disordine urbanistico e al dissesto idrogeologico prodotto da una speculazione edilizia senza freni Mancini non si limitò soltanto ad usare l’arma della denuncia, ma decideva di rimuovere tutto ciò che si era illegalmente realizzato. Fu il primo che spiegò che dietro le speculazioni edilizie più scandalose c’era una mafia imprenditrice che da tempo aveva messo le mani sulle grandi città forte delle coperture offerte dalla politica e dalla burocrazia. Si batte per il completamento delle infrastrutture eternamente incompiute. Completa l’autostrada Milano-Napoli, e ne decide il prolungamento fino a Reggio Calabria; completa la Roma- Civitavecchia; crea altre sedi stradali in ogni parte d’Italia avviando la costituzione di un enorme patrimonio di infrastrutture tra le quali porti, come quello di Gioia Tauro, aeroporti come quello di Venezia e Lamezia Terme. Ma si occupa anche della difesa di Venezia minacciata dall’abbassamento del fondo marino, della pericolosa inclinazione della torre di Pisa. Definisce l’unica legislazione urbanistica del nostro paese con la “legge ponte”, seguita da quella sugli standard edilizi; promuove la legge per l’edilizia economica popolare. Lascerà una forte impronta come ministro della sanità per la battaglia portata avanti e vinta a favore della vaccinazione antipolio attraverso la distribuzione del vaccino Sabin che veniva ostacolata dalla concorrenza tra le diverse industrie farmaceutiche. Condivise fino in fondo gli sforzi compiuti da Nenni, dopo la fine del frontismo, per realizzare l’unita dei socialisti. Si trattava di un processo comprensibilmente lento e lungo. Rivalità e pregiudizi politici dei leader di Psi e Psdi erano di ostacolo all’unificazione. La stessa Dc, pur non manifestando ostilità verso la formazione di un unico partito socialista, non era certo interessata a potenziare un alleato. Intanto, è bene sottolineare che non è vero che Mancini ha fatto fallire l’unificazione socialista quando si è reso conto che non sarebbe stato accettato come segretario del partito unificato. Una candidatura questa, che Nenni sosteneva con convinzione perché riteneva Mancini, per la sua antica fede autonomista e per le sue capacità organizzative, un candidato alla segreteria ideale. La verità è che l’idea che Mancini aveva del centro-sinistra come formula di governo in grado di garantire un riformismo forte, che consentisse cioè ai socialisti di imporre riforme strutturali, non era condivisa da una parte del vecchio partito saragattiano.C’era chi, all’interno del partito unificato, chiedeva di rispondere alle riforme con un certo gradualismo, senza mettere in discussione la governabilità del Paese, insomma,evitando forti tensioni nel rapporto con la Dc.Mancini riteneva che in questo senso l’unificazione socialista dovesse dare un ruolo decisivo al partito socialista come partito del cambiamento

Mancini collocava al centro del suo progetto di rinnovamento del partito l’ammodernamento dello Stato L’unificazione socialista, però, pur essendo stata progettata da tempo sul piano della sua realizzazione ha conosciuto incoerenze ritardi tatticismi riserve mentali tali da renderla difficile. Avvenne in un clima di grande euforia. Sicuramente condivisa dalla base dei due partiti e soprattutto da quella del partito socialista. C’è da dire, poi, che il maggiore limite di essa fu il criterio paritetico sulla cui base si organizzò il nuovo partito che rivelò un freno alla sua capacità espansiva, apparendo sempre più chiuso. Mancini manifestò disagio per questo stato di cose. Si trova a operare in un partito in cui il potere di veto reciproco delle due componenti risultava paralizzante ai fini dell’iniziativa politica. Dichiarò che più che un dibattito democratico in quel partito si scambiavano messaggi, dichiarazioni e comportamenti allusivi. I socialdemocratici erano abituati a essere una sorta di area protetta dalla Democrazia cristiana, con una collaborazione subalterna che costituiva la cifra, poi, dei governi centristi. Il Partito socialista non aveva mai accettato, invece, un rapporto gerarchico con la Democrazia Cristiana come quello che erano abituati a subire gli alleati minori dei governi centristi. Da queste diverse esperienze maturate dai socialisti e dai socialdemocratici non era certo agevole ricavare un modello di convivenza politica quale quello che avrebbe dovuto caratterizzare il grande partito riformista di cui il paese aveva bisogno. Il vecchio Nenni vede, insomma, che il suo progetto è seriamente compromesso e si dimette dalla presidenza del partito. Il Psi sollecitava una franca discussione nel nuovo partito su una idea di riformismo forte che non poteva non essere condivisa. E su questo terreno tra De Martino e Mancini si registra una forte convergenza, al di là delle diverse collocazioni correntizie. Probabilmente le posizioni assunte, via via, da Mancini, il suo avvicinamento a De Martino sul tema delle riforme strutturali ineludibili, produsse il fallimento della unificazione.

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Francesco de Martino

Si trattò comunque di un tragico errore. Ma decisivo fu per il fallimento dell’operazione il mancato sfondamento elettorale del partito che avrebbe dovuto rompere il bipolarismo imperfetto attraverso l’emergere di una posizione riformista. Nel congresso che sancì la scissione, Mancini fa un appassionato intervento con il quale ammonisce i socialisti dei rischi connessi ad un disimpegno tattico al governo di centro-sinistra. Egli era ben consapevole delle nuove esigenze che permeavano la società nazionale, delle conseguenze che avrebbero prodotto la rivolta del ’68 e il femminismo, dei fenomeni di antagonismo politico di massa, con cui bisognava fare i conti e proponeva una strategia nuova, che non rientrava nei canoni tradizionale dell’autonomismo socialista. Si parlò allora di un Mancini che abbandonava la prudenza degli autonomisti e guardava con simpatia al formarsi di un partito socialista plurale che assumeva a modello di partito che Mitterrand guidava in Francia, promuovendo la creazione di una larga coalizione di sinistra per conquistare la presidenza la Repubblica. Non c’è dubbio che questa posizione contraddiceva con la storia dei socialdemocratici italiani che non erano pronti per una siffatta svolta. Mancini collocava al centro del suo progetto di rinnovamento del partito l’ammodernamento dello Stato, passaggio decisivo questo per dare concretezza a quel disegno di democrazia emancipante attraverso il quale intende garantire la discontinuità della Repubblica non solo rispetto al regime fascista ma anche rispetto all’Italia liberale del prefascismo. Insieme a Craxi è stato il leader politico che maggiormente si è impegnato sul terreno delle riforme istituzionali. Mancini lamentava a ragione l’assenza di un’adeguata conoscenza nel partito, del funzionamento degli apparati dello Stato, caratterizzato da una farraginosità che condizionava sia il processo decisionale che l’operatività della riforma che si approvavano. Insomma le riforme non sempre avevano una adeguata copertura amministrativa.

I rapporti tra Craxi e Mancini erano stati di sincera collaborazione, considerato che entrambi i leader condividevano la politica autonomista del partito

Creò, quindi, nel partito un forte dipartimento che si occupava di problemi dello Stato guidato da un uomo della sua corrente, Vincenzo Balzamo, chiamando a raccolta importanti studiosi e servitori dello stato di cultura progressista. Si è battuto per promuovere il processo di democratizzazione delle forze armate, per riformare la giustizia lumaca e spesso ingiusta, per consentire ai cittadini di poter più agevolmente accedere alla giustizia, di consentire una franca discussione sulle politiche del diritto e sull’orientamento della giurisprudenza contrastata dalla magistratura degli ermellini che riteneva la critica delle sentenze un vulnus alla sacralità delle decisioni assunte dalle Corti. E Mancini ritiene che i socialisti che accedono alla famosa stanza dei bottoni di cui parlava Nenni, devono anzitutto mettere a punto adeguati presidi perché i diritti sociali siano presi sul serio dai cittadini e dalle istituzioni. Si tratta di rendere eguali i diseguali attraverso coraggiose riforme che una parte del sistema politico contesta ritenendole troppo avanzate. Mancini e altri leader socialisti stabilirono un fitto dialogo su questi temi con quei settori della magistratura associata, come Magistratura democratica, che erano interessati a vedere realizzate le loro riforme. Strenuo garantista favorevole allo sviluppo dei diritti civili, Mancini come segretario del partito, interviene alla Camera per difendere la legge sul divorzio, spiegando che l’alleanza con la Dc, allorché si tratta di lottare per le libertà civili, per i socialisti non rappresenta un ostacolo, in quanto il Psi era impegnato ad assumere tutte le iniziative che vanno nella direzione di un allargamento dei diritti, che deve avvenire declinando fedelmente i principi contenuti nella Costituzione. Ci teneva a puntualizzare che non esisteva alcun patto di governo che potesse in qualche modo influire sulla identità garantista del partito. Un garantismo dinamico quello di Mancini, che si esprimeva anche attraverso la concreta solidarietà ai dissidenti di diversi paesi costretti ad essere esuli in Italia perché perseguitati per le loro idee politiche in patria da regimi dittatoriali. Infatti, esuli spagnoli, portoghesi, greci, trovano ospitalità in strutture messe a disposizione del Partito socialista. Giacomo Mancini concepiva l’alleanza con la Dc come un rapporto fortemente competitivo per piegare le resistenze che una parte di essa, nostalgica del centrismo, manifestava verso il centrosinistra, soprattutto sul terreno dei diritti civili. Non si trattava di una strategia destinata a durare all’infinito, ma di un passaggio necessario per potere, in prospettiva, realizzare la politica dell’alternanza. Ma all’alternanza non credeva il Partito comunista. In questo senso Mancini fu antesignano della politica di Craxi, che vedeva il rapporto di collaborazione competitiva con la Dc destinato nell’immediato a sostituire al bipolarismo di Dc e Pci il bipolarismo Dc e Psi, considerata la riluttanza con cui il Pci affrontava il tema dell’unità socialista, soprattutto dopo la fine della guerra fredda. Il Pci insomma si sentiva rassicurato da un rapporto con la Dc che lo esonerava, a differenza dei socialisti, da ogni forma di revisionismo, con riferimento alla propria storia politica, soprattutto dei rapporti con Mosca Mancini come Craxi non era anticomunista, ma era meno convinto di Craxi della possibilità che il Pci potesse condividere un progetto come quello dell’unità socialista sacrificando la prospettiva del compromesso storico. La verità, però, è che i due leader agivano in contesti storici diversi. Mancini si confrontava con un Pci che era nella sua fase ascendente, aveva raggiunto come quantità di consensi la Dc, governava grandi città e regioni, controllava in modo ferreo il sindacato, mentre il Psi aveva perduto le grandi scommesse con le quali si era misurato, soprattutto quella dell’unificazione socialista e degli equilibri più avanzati. Craxi viceversa si confrontava con il Partito comunista che era riuscito a battere sul campo in molte occasioni. Basti pensare ai referendum sulla scala mobile, la presidenza del consiglio strappata alla Dc, al Concordato con la Chiesa cattolica portato finalmente a conclusione, alla sfida alla superpotenza americana vinta ai tempi della vicenda di Sigonella, il cambiamento degli equilibri all’interno della Democrazia cristiana con la sconfitta dalla sinistra di De Mita. Era molto diverso l’approccio di Mancini e Craxi al tema del rapporto con il Partito comunista. Mancini pareva poco interessato alla disputa ideologica relativa alle diverse radici culturali di socialisti e comunisti. Molto più interessato era ai temi del pensiero autogestionario che si poneva in posizione antitetica al liberismo economico come allo statalismo comunista o comunque al capitalismo di Stato. Guardava con attenzione a quanto facevano i socialisti continentali, tedeschi e svedesi, che diedero vita al piano Meidner. Ma era soprattutto interessato ad aprire un dialogo anche con i movimenti extra parlamentari, anti-autoritari che dopo il ‘68 si andavano sviluppando nella società italiana. Anche se diffidava delle forme di lotte con metodi violenti, non pareva dubbio che considerava i contestatori come delle risorse da utilizzare per sviluppare la democrazia, per rafforzare il valore della laicità dello stato, messo in discussione da quella parte della Dc scesa in campo per contestare il divorzio e affossarlo.

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Bettino Craxi

 

I rapporti tra Craxi e Mancini erano stati di sincera collaborazione, considerato che entrambi i leader condividevano la politica autonomista del partito. Avevano una grande ammirazione per Nenni. Mancini collaborò con lo storico leader socialista nella costruzione di un partito che si affrancasse dal frontismo e Craxi, in anni successivi, fu il principale collaboratore di Nenni nella gestione della corrente autonomista. Quando dopo la sconfitta elettorale del ‘76 Mancini insieme ad altri leader ritiene che bisogna cambiare la politica del partito tornando a un centro sinistra organico, considera il rinnovamento della classe dirigente come una necessità ineludibile nel momento in cui gli equilibri più avanzati perseguiti da De Martini subivano una clamorosa sconfitta elettorale. In sostanza bisognava cambiare non soltanto politica ma anche classe dirigente. A giudizio di Mancini, Craxi era l’uomo giusto per rilanciare il partito tenuto conto che era stato vicesegretario per 7 anni, si era occupato della politica estera in questo lasso di tempo, costruendo una importante rete di relazione con i diversi leader del socialismo europeo ma anche con i movimenti progressisti che si andavano affermando nei paesi in via di sviluppo. Il Midas, quindi, non fu una rivolta di palazzo, ma un investimento politico necessario per rilanciare il Partito socialista che viveva una profonda crisi. Mancini collabora con Craxi molto lealmente, lo sostiene nei passaggi difficili che la nuova gestione comporta, considerato che Craxi è a capo di una piccola corrente, mentre Mancini ha una corrente molto consolidata e con un forte radicamento territoriale. Craxi via via si rafforza attraverso una efficace opera di reclutamento, che lo porta a valorizzare giovani dirigenti provenienti dalle altre correnti, interessati a una profonda ristrutturazione organizzativa e culturale del Psi. È inevitabile che Craxi si affranchi anche dalla tutela di Mancini, anche se entrambi condividono una profonda avversione verso il compromesso storico e le pratiche consociative che avevano governato la vita parlamentare sin dai primi anni della Repubblica. La corrente manciniana è quella che subisce maggiormente il ridimensionamento del potere all’interno del partito con Craxi segretario. Era quella di Mancini insomma una “corrente personale”. Se corrente demartiniana rappresentava il correntone di centro che governava il partito, di volta in volta più o meno governativa; se la corrente lombardiana era una corrente di sinistra che puntava molto sui contenuti dell’azione politica ma non rifiutava certo la partecipazione al governo, la corrente di Mancini aveva un capo carismatico che attraverso la presenza nel governo, ma anche grazie al suo dinamismo riusciva ad avere una larga udienza nel partito.

Le battaglie condotte per la difesa dello stato di diritto non sono state mai strumentali,insomma destinate a creare divisioni nel Paese per pescare nel torbido

I rapporti tra Mancini e Craxi si incrinano in occasione del congresso di Palermo e della riforma dello statuto del partito. Il politico calabrese si oppone alle nuove norme statutarie in base alle quali si elegge il segretario direttamente in congresso non attraverso il voto della direzione. Spiegava che questa deriva antidemocratica avrebbe portato solo guai, alimentando cattive abitudini e non avrebbe certo rafforzato il senso della militanza. Non voleva, dirà, un partito bonapartista anche se il partito del leader negli anni ‘80 rappresenterà il modello definitivamente prevalente nei grandi come nei piccoli partiti tranne che nella Dc, che conservava il carattere di partito plurale organizzato attraverso le correnti. Si trattava di una presa di posizione sui rischi del leaderismo che precedeva di circa vent’anni l’analisi che farà Calise nel suo fortunato libro sul partito personale. Dopo il congresso di Palermo i rapporti tra Mancini e Craxi peggiorarono sempre più. Non c’è dubbio che Mancini abbia fatto del garantismo la sua bandiera. Una bandiera che non ha mai ammainato nonostante le difficoltà che le sue posizioni gli creavano relegandolo al quasi totale isolamento. Il rifiuto di accettare ogni forma di potere senza limiti lo ha portato a pretendere la massima trasparenza nel funzionamento di quegli apparati dello Stato ove si concentra il grande potere spesso irresponsabile. Ha sempre ritenuto che l’equilibrio tra il diritto alla sicurezza e il diritto alla libertà non potesse essere vulnerato, considerato che la Costituzione da questo punto di vista fornisce strumenti utili perché tale equilibrio venga sempre mantenuto. Ha sempre ritenuto che la scarsa attenzione dedicata dal Parlamento al controllo di alcuni poteri separati, che avevano dato prova di scarsa affidabilità nella storia della Repubblica, abbia arrecato un vulnus alla qualità democratica delle nostre istituzioni. Contro gli abusi compiuti da alcuni corpi dello Stato ha mosso accuse circostanziate, o organizzato vere e proprie campagne tendenti a rendere trasparente i processi decisionali che riguardavano queste strutture. Nelle sue denunce Mancini non faceva allusione ma indicava fatti e personaggi responsabili di abusi a suo giudizio intollerabili. Riteneva che dal tentato golpe del generale De Lorenzo le istituzioni non avevano tratto i necessari insegnamenti e che nulla si era voluto fare per riformarle per la tenuta del sistema democratico. È chiaro che per questa ragione viene ritenuto un destabilizzatore da combattere con ogni mezzo. È significativo che di fronte ad una candidatura di Mancini a Ministro delle finanze, si registra una sollevazione di ambienti che sono ostili al leader socialista che pure era stato segretario nazionale del suo partito. Infatti, la candidatura non passa. Non sembra del partito manifestasse adeguata attenzione verso la posizione di Mancini che proponeva lo scontro aperto sui temi del garantismo, della legalità democratica insidiata dalle deviazioni dei corpi separati dello Stato. Ha parlato di ciò con dovizia di particolari sin dal congresso di Genova del ‘72. E rivolge l’appello non solo ai socialisti ma a tutti i partiti perché su questo terreno vi fosse maggiore consapevolezza e impegno. Mancini ha sempre ritenuto che la sicurezza dello Stato dipenda dalla fedeltà dei suoi servitori e dalla efficacia delle risposte che vanno date sul piano della politica dell’ordine pubblico. Le battaglie condotte per la difesa dello stato di diritto non sono state mai strumentali, insomma destinate a creare divisioni nel Paese per pescare nel torbido, o per guadagnare facili consensi. È sempre stato convinto che quella italiana fosse una democrazia tutto sommato fragile ed esposta a rischi provenienti da ambienti nostalgici del centrismo, che aveva governato l’Italia nei primi anni della Repubblica e che rifiutava le riforme del centro-sinistra perché ritenute una minaccia alla salvaguardia degli interessi dei poteri forti. Riteneva, inoltre, che dovere dei socialisti fosse quello di organizzare forme di difesa della democrazia ovunque essa fosse vulnerata nella sua essenza libertaria. Non sottovalutava, inoltre, i rischi della violenza politica con cui si voleva affermare il diritto al cambiamento da parte di gruppuscoli dell’estrema sinistra, di extra parlamentari, di reduci del ’68, che avevano cercato di alzare il livello dello scontro politico anche attraverso un attacco molto duro al sistema dei partiti. Sin dal congresso di Palermo, Mancini parla delle leggi dell’emergenza, proponendo una riflessione seria sui guasti che possono venire dalla violazione dei diritti giustificata dall’esigenza di garantire la sicurezza del Paese. Spiega quanto sia pericoloso fare uso di una ispirazione autoritaria nella lotta al terrorismo e che bisogna opporsi ad ogni tipo di teorema giustizialista. Craxi condivide le posizioni garantiste di Mancini anche perché convinto che una risposta solo militare non sarebbe sufficiente a debellare il terrorismo. Mancini ha dimostrato sorprendente fermezza nel respingere quella che lui chiamava l’ordalia giudiziaria, allorché furono processati gli esponenti dell’autonomia, prevalentemente operai perseguiti per le loro idee sovversive e per i loro scritti e non per i reati accertati. Con riferimento al processo “7 aprile”, che prendeva le mosse dal famoso teorema Calogero e che registrò profonde divisioni anche all’interno della stessa magistratura di Padova, Mancini si pose in prima linea nel difendere le ragioni del diritto, e in occasione del dibattito parlamentare su quella vicenda assunse posizioni coraggiose anche a difesa di Toni Negri. Spiegò Mancini in Parlamento che era un bene che il dibattito su temi così delicati non approdasse a posizioni unanime perché la storia, e soprattutto la storia del movimento operaio, ci aveva insegnato che non giova in questi casi il fatto che le poche o molte voci di dissenso non arrivino all’attenzione di chi poi alla fine era chiamato a prendere le gravi decisioni. Spiegò allora che le battaglie garantiste vanno fatte a prescindere dalle possibilità di successo che esse possono conseguire. Disse che la questione della dissociazione in carcere andava valorizzata come elemento di pacificazione nazionale e non sottovalutata e derisa. Al congresso di Rimini dell’87, Mancini affronta il tema della mafia spiegando che i partiti manifestano una preoccupante incapacità di analisi del fenomeno allorché non riescono a distinguere vecchia e nuova mafia. La mafia si è spostata ormai da tempo, dice Mancini, dalle città alle campagne per controllare la speculazione edilizia ed è su questo terreno che ha realizzato in alcune realtà del Mezzogiorno, ma soprattutto nella Sicilia, e in particolare a Palermo, un nuovo patto con la Dc. È un’altra mafia che può contare su consulenti competenti che ne organizzano i movimenti di capitale. Non bisognava aspettare l’omicidio Lima per avviare la riflessione in questo senso. E pagherà per questa sua idea della verità e della giustizia quando, alla fine della sua carriera politica, decide di occuparsi dell’amministrazione della sua città e viene eletto sindaco di Cosenza, pur essendo isolato dal Partito socialista che gli contrappone un altro candidato di centro destra. Viene indagato nientedimeno che per ‘ndrangheta dopo che per tutta la vita aveva assunto in quel territorio posizioni fortemente polemiche nei confronti della criminalità organizzata e delle collusioni che esistevano tra mafie e politica. Fu tirato in ballo da pentiti ma spiegò ai suoi cittadini, che conoscevano la sua storia politica, del perché e del come aveva combattuto la mafia e i cittadini di Cosenza non ebbero dubbi sulla sua onestà intellettuale sulla sua fede democratica. Quella fu una vicenda giudiziaria lunga e tormentata. Mancini respinge con indignazione le accuse che gli vengono rivolte, ma il tribunale di Palmi il 25 marzo del 1996 lo condanna per concorso esterno in associazione mafiosa. Passa un anno e la Corte d’appello di Reggio Calabria, il 24 giugno 1997, annullò la sentenza per incompetenza territoriale rimandando tutti gli atti a Catanzaro. La richiesta di rinvio a giudizio fatta nell’ udienza preliminare fissata per il 1° giugno del ‘99 fu poi rinviata al 5 ottobre ‘99 in quanto nel frattempo Mancini si era candidato alle elezioni provinciali di Cosenza. La conclusione della vicenda giudiziaria arriva il 19 novembre del 1999 con la prescrizione del reato di associazione per delinquere. Per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa Mancini viene assolto perché il fatto non sussiste. C’è da dire che questa lunga vicenda giudiziaria non ha intaccato la sua immagine. Viene rieletto sindaco, stavolta sostenuto anche dall’Ulivo, al 1º turno nel 1996. Mancini insomma ha combattuto nella sua vita tante battaglie e l’ha fatto esponendosi personalmente, esprimendo convinzioni che meritavano di essere fino in fondo difese.