“La sanità che non vorrei” di Giovanni Monchiero
Una settimana fa eravamo nell’auditorium del Ministero della Salute a discutere su “La Sanità che
vorrei”. A dibattere sul futuro del nostro servizio sanitario, c’era una folta e qualificata
rappresentanza del mondo della sanità, dagli ordini professionali all’industria di settore, dalle
aziende sanitarie pubbliche alla spedalità privata, dagli ingegneri clinici alle società scientifiche dei
professionisti sanitari. Mancava solo il Ministro, che pure aveva garantito la sua presenza, chiamato
in Parlamento da impegni inderogabili.
Ovvio che il parlamento venga prima di un convegno, ma che cosa stava succedendo quel giorno
nella austera aula di Palazzo Madama? Il Senato stava votando la conversione del DL “Rave Party”,
una delle tante leggi inutili, emanate sull’onda di una domanda generata da fatti di cronaca. Che
c’entrano – viene spontaneo domandarsi – i “rave party” con la sanità? Assolutamente nulla, ma –
come sempre più spesso accade – mano appassionata e sollecita, che supponiamo non lontana,
politicamente, da lungotevere Ripa, aveva aggiunto una serie di emendamenti di stretta rilevanza
sanitaria. Triplo esempio di consolidato malcostume parlamentare.
È da decenni che si propongono leggi sempre più specifiche, restrittive o permissive a seconda dei
casi, sulla spinta dell’emozione. Risultato di tanti interventi scoordinati è un diritto penale caotico,
nel quale si è smarrita la dimensione della gravità stessa dei reati e, di conseguenza, una coerente
graduazione delle pene. Anche più antica è la pessima abitudine di infarcire i decreti-legge di norme
del tutto estranee al provvedimento, a sua volta caratterizzato da requisiti d’urgenza piuttosto
stiracchiati. Coetanei agli abusi, i ricorrenti richiami presidenziali a più attenta applicazione dei
principi costituzionali. Sempre inascoltati, come dimostra il caso di giornata: un DL di dubbia
urgenza, adottato per compiacere l’opinione pubblica ed integrato con norme che riguardano
tutt’altro argomento.
Ma torniamo al punto. Nell’iter di conversione in legge del decreto sui “rave party”, si è pensato di
sopprimere il “green pass”, eliminare il tampone per i contagiati all’uscita dalla mini-quarantena,
alleggerire gli obblighi per i “contatti” stretti delle persone colpite dal virus, rinviare di sei mesi (in
attesa, si suppone, di un altro intervento normativo) l’applicazione delle sanzioni previste per chi
aveva violato l’obbligo vaccinale. Tutte norme che vanno nella direzione del revisionismo di
quanto pensato e fatto per contrastare la pandemia e che danno corpo agli annunci del Presidente del
Consiglio e del Ministro nei primi giorni di vita del nuovo governo.
Mi si dirà che la pandemia di Covid attraversa una fase di stanca ed appare ben lontana dalla
iniziale pericolosità, che bisogna concentrare le forze sull’influenza stagionale, particolarmente
aggressiva, e che ben altri sono i problemi della nostra sanità. Su quest’ultima affermazione non c’è
dubbio. I guai del S.S.N. sono tali e tanti che, parlandone, si può cadere nella disperazione.
Nel dibattere della “sanità che vorrei” tutti gli intervenuti hanno evidenziato problemi molto gravi
dedicando particolare attenzione a quelli che li toccano più da vicino. Eppure, tutti confidano nel
cambiamento, ritenuto salvifico ed indifferibile.
È chiaro che le molte istanze vanno ricondotte ad una direzione comune, che appare però agli
antipodi rispetto ai frettolosi (non per nulla inseriti in un decreto d’urgenza) provvedimenti del
governo. Che saranno pure piccola cosa rispetto ai problemi immani della nostra sanità, ma
sembrano voler tutelare l’arbitrio individuale sulla strada che porta alla irresponsabilità. Un
percorso incompatibile con l’essenza del Servizio Sanitario Nazionale.
Ricordavo, qualche settimana fa, che l’art.32 della Costituzione riconosce il diritto alla tutela della
salute ed aggiunge che è interesse della collettività. In caso di minacce alla salute collettiva, la tutela
della propria diventa un preciso dovere verso gli altri. Il Servizio Sanitario Nazionale non può
rinnegare questi principi.
Prima di tornare a parlare della sanità del futuro, mi pare opportuno tracciare qualche confine. Il
cambiamento è necessario, non sarebbe accettabile una riforma che non incida sull’organizzazione,
in cui ognuno continui a fare quel che fa adesso, nel medesimo modo: ci mancano i medici, ne
paghiamo 20.000 “a gettone”, poi scopriamo che ne abbiamo più della media europea; non
possiamo far finta di nulla. L’autonomia delle amministrazioni regionali, locali e aziendali è un
valore, ma le differenze nella qualità dei servizi fra regioni e, al loro interno, fra area e area del
territorio, sono inique: lo stato delle cose deve essere corretto, non aggravato. L’integrazione (fra
ospedale e territorio e fra sanitario e sociale) è un mantra che non ha mai trovato applicazione: una
riforma che non ricostituisca l’Unita voluta dalla legge istitutiva del SSN sarebbe inutile. Medici e
personale sanitario si sentono assediati mentre la legge “Gelli” è stata attuata in parte e poi
dimenticata: anche in questo caso la riforma deve incidere sull’esistente.
Infine, la responsabilità. Un sistema così complesso non deve assecondare l’arbitrio dei singoli. Il
lavoro dei sanitari impone l’applicazione di conoscenze scientifiche e tecniche che non possono
essere stravolte secondo gli umori del momento. I risultati del lavoro vanno valutati a livello di
gruppi e, ove utile e possibile, di singoli. Un’organizzazione nella quale non si riconosca il merito e
non si sanzioni il demerito – dei manager, dei dirigenti, dei professionisti – vedrà crescere,
inesorabilmente, le tensioni interne, fino all’autodistruzione.
Ho provato a definire alcune caratteristiche negative che non vorrei ritrovare nella sanità di domani.
Mi intristisce scoprirmi a pensare che, invece, si stanno consolidando.
22 Dicembre 2022