Riprendiamo le riflessioni di Giovanni Mochiero degli ultimi mesi

Giovanni Monchiero

Riflessioni Sanità e Istruzione

 

Nel merito

Il numero di giugno della nostra rivista, dedicato alla auspicata riforma del servizio sanitario,
presenta in copertina un cero nel buio con la scritta “Il SSN è morto?” A un amico accademico che
mi esprimeva perplessità per tanto pessimismo ho fatto presente che la mia risposta a una domanda
così diretta sarebbe: “No, ma è molto grave. Con prognosi infausta, perché al suo capezzale si
affollano curanti che provano a somministrargli medicine di ogni genere senza concordare sulla
diagnosi.”
Analoga sorte sembra toccare alla scuola pubblica, istituita nell’ottocento da Michele Coppino,
gloria patria per noi albesi, condannato all’oblio nel resto del Paese che pure tanto gli deve. Scuola
e sanità sono, per uno Stato moderno, i servizi più qualificanti e, dopo il sistema pensionistico,
anche i più costosi. Entrambi in crisi.
Non ripeterò cose dette e ridette sul S.S.N. Vorrei soffermarmi, invece, su un tratto della nostra
scuola pubblica che nel dibattito politico è stranamente ignorato. Si lamentano le carenze di
personale, la vetustà degli edifici, le lacune negli spazi disponibili e nelle norme di sicurezza, la
mancanza di rispetto per gli insegnanti, l’intromissione del TAR negli scrutini, il lassismo di
qualche collegio docenti, la tensione con le famiglie. Su ognuno di questi temi le cronache
diffondono quotidiane occasioni di riflessione fra esperti, di discussione al bar, di confronto
politico.
Parlando della scuola, la politica si manifesta sempre aperta al cambiamento. Non c’è governo che
non abbia vagheggiato una riforma, per poi magari limitarsi a ritoccare le regole dell’esame di
maturità.
Il ministro Valditara, all’atto dell’insediamento, ha proposto ed ottenuto di cambiare nome al
ministero sostituendo la formula tradizionale “della Pubblica Istruzione” con un rivoluzionario
“dell’Istruzione e del Merito”. Il concetto di merito andrebbe forse approfondito, comunque
premiare il merito – e punire il demerito – può anche essere uno schema pedagogico efficace, che
appare, però, un po’ semplicistico. Tant’è che da molti, specie a sinistra, quel richiamo al merito
venne accolto come l’annuncio del ritorno ad una scuola classista, non inclusiva, dedicata a formare
i migliori, pronta ad abbandonare al loro destino i meno capaci, i meno volenterosi e, manco a dirlo,
i meno ricchi.
Poi, una volta all’anno, escono i dati Invalsi ed emerge il problema dei problemi: il grado di
apprendimento. Metà degli studenti delle superiori non comprende un testo in italiano e presenta
gravi lacune anche in matematica; solo il 28 per cento raggiunge la sufficienza in tutte le materie,
meno di uno su tre. La novità di quest’anno è che le cose vanno male fin dalle elementari ove già si
manifesta il divario fra Nord e Sud. Qua e là leggo richiami al Covid. Certo la didattica a distanza
non ha favorito l’apprendimento, specie nella scuola primaria, ma non lasciamoci sedurre dalle
scuse.
Le regioni del Sud, meno colpite dal Covid, l’hanno patito di più. Esattamente come accaduto in
sanità. Qualsiasi indicatore economico, di crescita sociale, di efficienza della pubblica
amministrazione, di sanità, di assistenza o di scolarizzazione, evidenzia una disparità fra Nord e Sud
che non tende a ridursi. Nella scuola elementare questa differenza è ancor meno spiegabile che in
altri settori più complessi. E lasciamo in pace Garibaldi.

Tornando al parallelo fra sanità ed istruzione, non possiamo nascondere i problemi in termini di
risorse umane ed economiche. Ma c’è un livello minimo di efficacia, al di sotto del quale un
servizio pubblico non può scendere senza mutare la propria natura.
Una sanità che non riesce più a gestire la prima diagnosi specialistica, inducendo i poveri a
rinunciare alle cure, è sull’orlo del disfacimento e non saranno isole di eccellenza a salvarla. Allo
stesso modo una scuola incapace di dare ai più deboli le indispensabili competenze di base
impoverisce la nazione più di mille catastrofi e viene meno al suo compito istituzionale. Non
saranno i geni che andranno ad insegnare al MIT o riceveranno il Nobel a mitigare il giudizio su
questo decadimento.
Nell’attesa dell’avvento dell’Età del Merito, la scuola si riproponga il fine di insegnare, a tutti, a
leggere, scrivere e far di conto. C’è stato un tempo in cui ci riusciva.

14 luglio 2023

 

Sulle liste di attesa

Liste di prescrizione

Il rapporto dei Nas sulla gestione delle liste d’attesa nelle aziende sanitarie pubbliche e nelle
strutture private convenzionate ha evidenziato le ben note carenze e qualche irregolarità. La notizia
è che non ha suscitato né allarme né furori giustizialisti, come sarebbe accaduto un tempo. Direi,
piuttosto, che è stato accolto con rassegnata noncuranza.
Eppure, emerge che un terzo, delle quasi quattromila agende di prenotazione sottoposte a verifica,
non rispetta le norme sui tempi d’attesa dettate dalla programmazione statale e regionale. Forse ci si
aspettava di peggio. Le liste d’attesa sono considerate una sorta di termometro per valutare lo stato
di salute del Servizio Sanitario ed è diagnosi diffusa che l’infermo sopravviva ormai in condizioni
molto precarie. E, comunque, nessuno – salvo qualche demagogo di professione – pensa ancora che
il problema si possa risolvere con i controlli di polizia.
Le difficoltà ad offrire tempestiva risposta alle richieste diagnostiche dei medici di famiglia è una
lacuna che il S.S.N. si porta dietro sin dalle origini. Anzi, si riteneva che un minimo di attesa per
prestazioni non urgenti potesse fungere da calmiere per quel che veniva definito, allora,
consumismo sanitario, vale a dire una eccessiva domanda, da parte degli utenti, di prestazioni di
diagnostica specialistica che la medicina di base tendeva ad avallare con leggerezza. Si scherzava
sulle “liste di prescrizione” di qualche medico particolarmente generoso e si pensava che un eccesso
di diagnostica fosse una malattia dello sviluppo del sistema, curabile con qualche leggero strumento
di dissuasione.
L’anomalia veniva ravvisata nell’inappropriatezza della domanda, nell’ipotesi che la ritardata
risposta non avesse conseguenze. Ricordo che, venticinque anni fa, in una “conferenza dei servizi”
– rendiconto pubblico, a cadenza annuale, sull’attività dell’Asl – evidenziai come i dati di salute
della popolazione del nostro territorio fossero del tutto sovrapponibili a quelli di un’altra regione
dove le prestazioni di specialistica erano del 40% più numerose.
Da allora, la storia ci racconta di una rincorsa a contenere l’attesa entro limiti fisiologici,
inseguendo la domanda con aumenti e diversificazioni di offerta. La cronaca ci dice che la battaglia
è stata perduta, con esiti negativi sull’equità di accesso alle cure.
Speculare alle difficoltà dell’offerta pubblica (che – non scordiamolo mai – include anche il privato
convenzionato) è il vertiginoso sviluppo del privato a pagamento diretto, out of pocket come dicono
gli economisti. Tradotto in termini pratici, significa che chi può paga e chi non può pagare rinuncia
alla prestazione diagnostica e si rivolge, successivamente e, a volte, in ritardo, al pronto soccorso.
La situazione è drammatica. Non la risolveranno i Nas né qualche annunciata elargizione ai medici
pubblici per retribuire prestazioni fuori orario. È il sistema della medicina di base che scricchiola.
La figura del medico di famiglia come gate-keeper del servizio sanitario è obsoleta e va ripensata.
Così come vanno ridefinite le funzioni degli ospedali delle ASL, oggi organizzati come aziende
ospedaliere di minori dimensioni e non come punto di riferimento per la medicina del territorio.
Ogni ragionamento deve sempre muovere dalla funzione di “tutela”, l’essenza del S.S.N. Applicata
alla fattispecie, comporta l’effettiva presa in carico del paziente, sin dall’insorgere dei primi
sintomi, che attualmente avviene con le storture appena descritte.
Il rapporto dei Nas costituisce ennesima conferma della necessità del cambiamento. Ma è
sensazione diffusa che tutto resterà com’è.

22 settembre 2023