“Indi, lo Stato che assoggetta i diritti dei minori rischia la deriva illiberale”

15 novembre, 2023 Il caso tratto dal “il Dubbio”

Chi e come valuta il dolore? Lo Stato che transige con le famiglie gli interessi dei figli da una posizione sovraordinata è uno Stato etico, cioè un modello di organizzazione sociale illiberale e autoritaria

In assenza di qualunque possibilità di sopravvivenza, la scelta dei medici inglesi risponde all’obiettivo di risparmiare alla piccola Indi un dolore fisico non più giustificabile. Per questo Luigi Manconi ritiene su la Repubblica che il diritto alla speranza dei genitori sia stato giustamente sacrificato. Mi chiedo tuttavia chi e come valuti il dolore. Se cioè sia possibile una sua misurazione oggettiva, che prescinda dalla sostenibilità individuale, e cioè dal rapporto tra il desiderio che il dolore cessi e la voglia di vivere.

Una risposta a questa domanda viene dalla Corte Costituzionale nella sentenza Cappato, che individua, tra i presupposti per riconoscere la legittimità del suicidio assistito, «sofferenze fisiche o psicologiche che la persona trova assolutamente intollerabili». La locuzione verbale “trova” vuol dire che la soglia di intollerabilità che l’ordinamento prende in considerazione è quella soggettiva dell’individuo. Chi, se non noi stessi, può decidere in quale momento l’insulto della pena sopravanzi la voglia di vivere? Se il dolore fosse una condizione oggettiva, valutabile da una fonte esterna alla sua stessa percezione, non avrebbe dignità la richiesta di Sibilla Barbieri di vedersi riconosciuto il diritto al suicidio assistito. Chi glielo riconosca non può coerentemente negare che la misura del dolore appartiene solo a lei.

Ma se, come nel caso della piccola Indi, manca un atto di volizione, chi misura il suo dolore e decide in sua vece nel modo migliore? Lo Stato o i genitori? Questa mi pare una domanda cosmica. La cui risposta, a ben riflettere, è impossibile. Sul terreno dell’opinione, gli argomenti a sostegno di un primato dello Stato si equivalgono e si contrappongono a quelli in favore della famiglia. Si può pensare che il distacco emotivo dello Stato scongiuri l’accanimento terapeutico nei confronti di un minore inguaribile, o piuttosto che la speranza dei genitori sia un’energia vitale che va assecondata. Il fatto è che un simile quesito non è risolvibile sul terreno dell’opinione.

Una risposta, ancorché parziale, può trovarsi nell’imperfezione stratificata del diritto. I diritti dei minori in una democrazia liberale sono esercitati, in loro vece, dai genitori o dallo Stato? Sappiamo che i principi del diritto liberale riconoscono allo Stato la potestà di surrogare i genitori, se questi si oppongono a una terapia vitale, come nel caso dei testimoni di Geova che rifiutino una trasfusione decisiva per salvare un minore. Qui prevale l’interesse alla vita che lo Stato ha diritto-dovere di tutelare anche contro il volere della famiglia. Lo stesso può dirsi per l’infibulazione, che viola un principio del diritto civile, cioè l’indisponibilità di trattamenti che determinino una diminuzione permanente della propria integrità fisica. Per la protezione di questi beni, vita e integrità fisica, lo Stato può sostituirsi al genitore che li metta in pericolo.

Ma la potestà dello Stato è concorrente con quella dei genitori rispetto a tutti gli altri interessi del minore? O invece può sostituirsi solo a tutela di beni fondamentali, perché in tutti gli altri casi l’individuo è padrone della sua vita e i genitori ne fanno le veci come proiezione della sua sfera individuale? La risposta a questa domanda definisce l’idea di Stato. Lo Stato che transige con le famiglie gli interessi dei figli da una posizione sovraordinata è uno Stato etico, cioè un modello di organizzazione sociale illiberale e autoritaria.

Non è questo il modello a cui si ispira la democrazia occidentale. In questa lo Stato è funzione della società. La sua supplenza autoritativa si giustifica solo in via eccezionale quando sono messi in pericolo beni fondamentali dei singoli e del corpo sociale. Non è il caso di cui discutiamo. Qui non è in rilievo l’interesse supremo del minore che, come accerta la scienza, non è salvabile. Non rileva il diritto alla vita ma piuttosto il diritto alla libertà di cura e alla dignità della morte. Si tratta forse di due diritti surrogabili in una democrazia liberale che intenda la libertà con l’ampiezza con cui la intendono le donne e gli uomini del nostro tempo? Se pure è indubitabile che lo Stato non fornisca terapie considerate dalla scienza inutili e controproducenti, può tuttavia negare ai genitori il diritto di portare a casa il minore, in ragione di un suo presunto interesse alle terapie palliative, che peraltro possono ovviamente essere prestate anche a domicilio?

Se noi sosteniamo il diritto di un adulto a morire come crede, e anzi chiediamo allo Stato la prestazione per renderlo effettivo, dobbiamo riconoscere ai genitori del minore l’esercizio di quel diritto, perché la loro potestà rappresenta il primato della persona. Un primato che definisce e limita la funzione strumentale e non sacrale dello Stato. Se lo Stato s’impossessa della dignità della morte, la libertà dei singoli è ferita a morte. Purtroppo questo accade in democrazie tradizionaliste, come la nostra, che lo negano, e allo stesso modo in democrazie nelle quali una deriva scientista oscura l’umanesimo. La cui hybris ruba alle persone il dolore, con l’inganno di alleviarlo.

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