“Contro il Parlamento “di Giovanni Monchiero

Prima di entrare nell’argomento della ennesima riforma della Costituzione proposta in questa
sciagurata seconda repubblica, vi devo, amici lettori, una premessa. Sono tendenzialmente contrario
ad ogni modifica della Carta, innanzitutto per ragioni formali, giuridiche e lessicali, a prescindere
dal merito.
Della nostra Costituzione si sentono comunemente elogiare i principi fondanti, tuttora attuali, e la
coerenza sistemica delle norme scritte da giuristi eccellenti (Piero Calamandrei, Costantino Mortati)
sui cui libri si sono formate generazioni di studenti in legge. Aggiungo la limpida chiarezza del
testo che, prima di essere portato al varo definitivo dell’Assemblea, fu limato da alcuni illustri
scrittori e studiosi di linguistica. La democrazia – si riteneva allora – passa anche attraverso una
legge fondamentale dello Stato immediatamente comprensibile a tutti.
A chi ritenesse eccessiva questa preoccupazione dei padri costituenti, raccomando la lettura
comparata del Titolo V, nel testo originario e in quello attuale conseguente alla (per me) esecranda
modifica del 2001. Lapidario il primo; lunghissimo, confuso e sconclusionato quello attualmente in
vigore, a partire dal primo comma dell’art.114, per il quale lo Stato sarebbe una parte della
Repubblica!
Un’ultima cosa, da lodatore del buon tempo antico. Nell’immediato dopoguerra, solo l’1% della
popolazione aveva conseguito una laurea. Ebbene, fra i membri dell’Assemblea costituente i non
laureati erano poco più del 5%. All’epoca gli elettori trovavano normale farsi rappresentare da
persone più preparate e più colte.
Venendo al recente ddl di riforma costituzionale, la motivazione dichiarata è quella di dare
maggiore stabilità al Governo. Un argomento utilizzato, dagli anni novanta in poi, da tutti coloro,
compresi giuristi e commentatori, che hanno proposto di intervenire sull’assetto degli organi
istituzionali dello Stato. Il termine di paragone è la caducità dei governi della “Prima Repubblica”,
dato incontrovertibile. Ma, a ben guardare, la breve durata dei dicasteri e l’avvicendarsi dei Ministri
non ebbero influenze negative sull’attività di governo. Furono gli anni del boom economico, del
benessere diffuso, della crescita civile e culturale della popolazione culminata in grandi conquiste
sociali; su tutte collocherei il Servizio Sanitario Nazionale, oggi agonizzante. Non mancarono prove
durissime, come gli anni di piombo, che il paese riuscì a superare in unità di intenti. Nonostante i
governi caduchi, si costruì in otto anni l’autostrada del sole, da Milano a Roma (530 Km) mentre
oggi per una bretella di 90 Km, da Asti a Cuneo (parlo del Nord efficiente e laborioso) i lavori sono
in corso da più di vent’anni e non ancora conclusi. Nel 1960 riuscimmo ad organizzare una
olimpiade memorabile che ci diede dignità agli occhi del modo. Oggi, per una banale edizione
invernale, hanno congiunto i loro sforzi Milano e Cortina (distanza 373 Km, tempo di percorrenza
in automobile non meno di 5 ore) e per le gare di bob gli atleti dovranno trasferirsi in Svizzera.
Da questo breve excursus storico oso desumere che la capacità di governo dipenda, più che dalla
durata dei governi, dalla qualità dei governanti e da quella degli elettori, fra loro strettamente
correlate.
I vari tentativi di riforma nascono con la “seconda repubblica”, animati da crescente fastidio dei
governi verso il parlamento, luogo del “teatrino della politica” (superfluo citare la fonte). Riforme e
riformette, riuscite e fallite, andavano tutte nella direzione di accrescere i poteri del Presidente del
Consiglio e limitare quelli dei Ministri e del Parlamento.

Il tema richiederebbe un trattato, non un corsivo, ma l’attuale scadimento del prestigio di Deputati e
Senatori nasce da lontano ed ha anche cause “tecniche”. A partire dallo sciagurato referendum sulla
preferenza unica, si sono susseguite leggi elettorali che hanno progressivamente svuotato la loro
autonomia, riducendoli al rango di nominati dai capipartito.
Se il Presidente del Consiglio e capo della maggioranza diventa, per la Costituzione, praticamente
insostituibile, ne guadagneremo certamente in stabilità, ma non in democrazia. Che, non
dimentichiamolo, nasce dai parlamenti, istituzione medioevale variamente denominata, posta a
limite dei poteri del re. Le monarchie assolute sorsero dopo, nell’età moderna, con la soppressione
di fatto delle assemblee di rappresentanza. Ed è da una forzata convocazione degli “stati generali”,
nati in Francia ai primi del Trecento e dimenticati da più centocinquant’anni, che scoppia la
rivoluzione francese e risorge l’idea di democrazia.
Viviamo nell’era della propaganda. La presidente del Consiglio proclama che questa sarà la “madre
di tutte le riforme”, inopportunamente echeggiando una infausta definizione di Saddam Hussein. E
a chi solleva dei dubbi, ribatte: “Volete che decidano i cittadini o i partiti?”.
È da domande di questo genere che nascono i governi autoritari.

17 novembre 2023