RIFLESSIONI DI OTTOBRE: DI GIOVANNI MONCHIERO
La parola ai ragionieri
È piuttosto riservato, non è analfabeta, non vive clamorosi conflitti di interesse, non ha parenti né
amici nel cerchio magico della premier e non è neppure amatissimo dal suo segretario di partito.
Anche per queste ragioni, tra i membri del Governo, è comunemente ritenuto il migliore.
Giancarlo Giorgetti è a capo del MEF, il super dicastero che accorpa quelle che, un tempo, erano le
competenze del Tesoro, del Bilancio e delle Finanze. Tiene quindi i cordoni della borsa che tutti,
maggioranza, opposizione e corpi intermedi, vorrebbero allentare e che i ragionieri tendono a
stringere. La ragioneria non è una scienza astrusa. Si basa sull’aritmetica applicata al principio che i
conti devono tornare e i bilanci quadrare.
Giorgetti è il responsabile politico dei conti dello Stato. Si avvicina la scadenza della annuale legge
finanziaria e il Ministro annuncia sacrifici. Dopo la rivoluzione culturale del ’68 la parola sacrificio
è scomparsa dal lessico privato. Sopravvisse ancora per qualche decennio in quello della politica,
per venire poi definitivamente cancellata dalla ideologia neoliberista: ognuno è autorizzato a curare
i propri interessi e a ignorare quelli della collettività.
Rispolverato in occasione della annuale manovra finanziaria, ogni richiamo al sacrificio è diventato
sinonimo di tassazione aggiuntiva, supremo tabù per la destra di governo. Così è accaduto anche a
Giorgetti di venire immediatamente sconfessato dalla premier (no a nuove tasse), soccorso da
ipocrite smentite dei suoi (è stato frainteso), contestato persino dal mite Tajani, prontamente
accorso in difesa delle banche minacciate da una imposta sugli extra-profitti.
Come sono lontani i tempi in cui Padoa Schioppa, anche lui alle prese con la quadratura del
bilancio, proclamava che le tasse sono una cosa bellissima perché servono a finanziare le
irrinunciabili funzioni dello stato: la giustizia, l’istruzione, la difesa, la sanità. Fu spernacchiato dal
popolo e condannato alla “damnatio memorie” dalla politica che, da allora, ha sposato la causa degli
evasori fino al punto di ribattezzare le tasse “pizzo di stato”.
Oggi i governanti aborrono l’idea di “mettere le mani nelle tasche degli italiani” ma ritengono loro
dovere “una coraggiosa politica di investimenti” di soldi che, purtroppo, non esistono. Il paese non
esce dalla crisi, aumenta il deficit di bilancio e peggiorano i servizi pubblici. Come ben sanno tutti
coloro che si occupano di sanità.
Martedì è stato presentato nella biblioteca del Senato, il 7° Rapporto Gimbe che offre una immagine
aggiornata del disastro. Cresce il divario fra la domanda di prestazioni diagnostiche e i livelli di
offerta delle strutture pubbliche o convenzionate, al punto che, l’anno scorso, 4,5 milioni di Italiani
hanno rinunciato alle cure, Per allineare la spesa pubblica pro-capite a quella dei paesi dell’OCSE,
occorrerebbe una cinquantina di miliardi all’anno o giù di lì. Non aggiungo altro.
Il giorno dopo Giorgetti conferma che il governo non ha intenzione di infrangere i limiti di
disavanzo stabiliti a livello comunitario e, con perfidia, propone ai suoi critici – fermamente
contrari a nuove tasse – tagli agli stanziamenti assegnati ai ministeri e riduzione della spesa
pubblica. Con l’unica eccezione della sanità che – cito testualmente – “manterrà l’incidenza sul
Pil”.
Poiché il prodotto interno lordo è destinato a crescere meno dell’inflazione, di risorse aggiuntive per
finanziare un rilancio della sanità, manco a parlarne. Se vogliamo salvare il Ssn dovremo, dunque,
puntare su una radicale ristrutturazione sostenuta da idee nuove. Lo diciamo con insistenza da un
paio d’anni. Ora ce lo impongono i ragionieri.
11 0ttobre 2024
I numeri sono un’opinione
Citavo, la scorsa settimana, un paio di dati dell’ultimo rapporto Gimbe. Fra i tanti elementi di
preoccupazione per la sorte del Servizio Sanitario Nazionale spicca che, secondo l’Istat, l’anno
scorso 4,5 milioni di cittadini italiani hanno rinunciato alle cure per ragioni economiche. Un
sintomo di disfacimento. Non nuovo.
Una dozzina di anni fa, un prestigioso centro di ricerche economiche e sociali stimava in 9 milioni
le persone costrette a rinunciare ad almeno un trattamento sanitario; numero cresciuto a 11 milioni
in analoga ricerca del 2016. Confrontando questi dati verrebbe da dire che le performance del SSN
hanno registrato, nel 2023, uno straordinario miglioramento, ma non è questa la percezione
dell’opinione pubblica, né dei pazienti, né degli addetti ai lavori. Sono i numeri che sono ballerini,
dipende da chi li raccoglie e come li interpreta. Sembra scontato che quelle vecchie ricerche
eccedessero in pessimismo, forse per ragioni ideologiche o anche solo per suscitare scalpore.
Come sono lontani i tempi in cui, a suggello di un ragionamento, si usava dire “due più due fa
quattro”. Oggi anche la matematica ha perso la sua oggettività e sparare dati a casaccio è
consolidata abitudine nel mondo, ingannevole, della comunicazione.
Leggevo l’altro ieri, a commento dell’ultima vincita al superenalotto, che le probabilità di azzeccare
il “sei” sono una su 622 milioni (calcolo delle probabilità) e che, secondo non specificati esperti,
sarebbe più probabile essere colpiti da un asteroide che centrare la combinazione vincente.
Osservo, senza il supporto di calcoli sofisticati, che in 27 anni 116 italiani sono stati miracolati dal
“sei” e nessuno è stato vittima di un meteorite.
Siamo a fine anno. Si avvicina l’appuntamento con la finanziaria e durante i lavori preparatori dal
MEF e dai portavoce della politica è filtrato alla stampa un fiume di numeri, in un mix di intenzioni
e di parole ambigue. Dibattito rovente pro e contro la nuova tassa sugli extraprofitti delle banche. In
un paese con un sistema fiscale serio, all’aumentare dei profitti corrisponderebbe un automatico,
progressivo incremento delle imposte. Poiché il nostro fisco non gode della stima di nessuno,
qualsiasi proposta diventa oggetto di discussione per poi giungere ad una soluzione salomonica,
vale a dire non fiscale. Niente nuova tassa, ma una anticipazione, da parte delle banche, delle
imposte presumibilmente dovute per l’anno a venire. Una sorta di prestito senza interessi, ma anche
una entrata cui l’anno prossimo occorrerà rinunciare.
Alla fine, il consiglio di ministri ha varato il testo da sottoporre al parlamento per l’approvazione. In
anni di maggioranze meno solide, venivano proposti migliaia di emendamenti che costringevano
deputati e senatori a passare le notti in commissione. In ultimo arrivava il maxiemendamento del
governo – un unico articolo con centinaia di commi – concordato con le minoranze e tutti potevano
raccontare di avere ottenuto qualcosa. È probabile che questa volta l’iter sia più breve, ma non si
escludono novità dell’ultima ora che, in sanità, sarebbero auspicabili.
Il giorno prima dell’approvazione del ddl, il ministro Schillaci aveva annunciato 3,7 miliardi in più
per il Fondo Sanitario Nazionale. Da Palazzo Chigi e da via xx settembre l’hanno garbatamente
smentito: C’è stato un equivoco. Quello sarà l’incremento per i prossimi due anni. Nel 2025 è
previsto soltanto un aumento di 900 milioni. Il Ministro fa buon viso a cattivo gioco e parla di
record di finanziamento (ci mancava che diminuisse!) ma, con quella cifra non si potranno
assumere i medici e gli infermieri ritenuti necessari, né incrementare le retribuzioni. I sindacati già
protestano. Non resta che confidare in un provvidenziale emendamento.
Per restare in sanità, ecco un provvedimento di facciata: l’intervento sulle regole di accesso alla
facoltà di medicina. Fortemente voluto dall’opinione pubblica e dai tantissimi politici che vi
identificano la causa della carenza di medici. In realtà il collo di bottiglia non era l’accesso alla
facoltà di medicina bensì quello alle scuole di specializzazione, da qualche anno totalmente
rimosso.
Come spesso accade, il rimedio si rivela peggiore del male. Il numero chiuso resta, vengono aboliti
i test d’ingresso, oggetto di molte critiche e ritenuti approssimativi. Saranno sostituiti da una
verifica sui risultati conseguiti nel primo semestre. Prima c’era un criterio di selezione opinabile,
ma che, allo studente faceva perdere un’opportunità. Oggi gli esclusi, che potranno iscriversi ad
un’altra facoltà, rischiano di perdere l’anno.
Ciliegina sulla torta: la graduatoria unica nazionale. Qualsiasi procedura concorsuale presuppone
valutazioni da parte della medesima commissione. Vedere interrotto il proprio corso di studi per i
voti migliori ottenuti da un collega in un’altra università è un monstrum giuridico.
Il voto sintetizza un giudizio che discende da molte variabili. Da che mondo è mondo, ci sono
sempre stati insegnanti severi ed altri più generosi. In questo caso, i numeri esprimono,
legitimamente ,un’opinione.
18 ottobre 2024
Compianto sulla Costituzione
Mentre il governo era intento al varo della finanziaria – per il mondo della sanità, assai deludente –
un magistrato romano ha bloccato il trasferimento in Albania di un gruppetto di immigrati
clandestini da rimandare nei paesi di origine, contestando i requisiti per il rimpatrio. Erano partiti in
sedici per la nuova struttura e la medesima nave li ha prontamente riportati qui.
Una piccola sentenza, molto formale, su un episodio tanto marginale nella sostanza quanto carico
di simbolismi politici, ha ravvivato le ostilità nella mai conclusa “guerra dei trent’anni” fra la
politica e la magistratura. All’inchiesta “mani pulite” si riconosce, comunemente, di avere
accelerato la fine della Prima repubblica, provocando – dicono alcuni – un vulnus istituzionale che,
con l’avvento della seconda, si è ulteriormente aggravato. In origine, gli indagati sollevarono il
tema dello scontro fra poteri dello Stato per non discutere delle proprie azioni. Oggi, ogni iniziativa
giudiziaria a carico di esponenti della maggioranza o che metta in dubbio la legittimità di atti del
governo, viene presentata come un atto eversivo di magistrati – le “toghe rosse” – mossi da
pregiudizio politico.
Al di là dei temi attinenti ad ogni singola fattispecie, si è progressivamente affermato che il
consenso elettorale dovrebbe porre l’uomo politico al riparo dalle inchieste attinenti alla sua attività
di governo: una sorta di immunità allargata. Ogni iniziativa che contrasti con il mandato popolare
sarebbe di per sé antidemocratica. Ricordate l’unto del Signore? Il volete far politica, presentatevi
alle elezioni? Formule pittoresche per affermare che l’eletto non deve essere soggetto alle leggi e ai
magistrati che le applicano. Nella lotta contro le monarchie assolute, fu necessario tagliare la testa
ad un paio di Re (Carlo I d’Inghilterra, Luigi XVI di Francia) per far passare il principio che
nessuno è al di sopra della legge. Lo sfinimento della democrazia rischia di riportarci a prima delle
rivoluzioni. Indietro di secoli.
Le polemiche di questi giorni rilanciano il progetto di separazione delle carriere fra la magistratura
inquirente e quella giudicante, presentato, sin dalla prima intuizione berlusconiana, come la panacea
dei molti mali della giustizia. Potete star certi che l’attività giurisdizionale non ne trarrà
giovamento. Scopo non dichiarato della riforma è quello di assoggettare i pubblici ministeri a
controllo politico, in aperto contrasto con i principi costituzionali. Le ossa di Montesquieu si
agitano nella tomba.
Le ricorrenti polemiche con la magistratura hanno messo un po' in ombra l’altro progetto di riforma
costituzionale: il premierato. Proprio ieri, tuttavia, il Corriere ha dedicato una pagina ad uno
stralcio della dotta prefazione di Sabino Cassese al libro di un noto imprenditore intitolato: “Il
premierato non è di destra”. Merita la citazione anche il sottotitolo: Perché cambiando la forma di
governo (sempre che lo si faccia bene) si può aggiustare l’Italia.
Il tema è quello di consolidare la stabilità del Governo minacciata dagli eccessi del
parlamentarismo, che era, forse, un limite della prima repubblica. Sottolineo forse perché nel quasi
mezzo secolo del potere democristiano, i governi duravano, in media, meno di un anno ma erano
più concreti ed efficaci di quelli che li hanno seguiti. Dal 1956 al 1964 si sono succeduti una decina
di governi e realizzata l’Autostrada del Sole, da Milano a Napoli.
Certo il paese aveva un altro slancio; la classe politica era di qualità nettamente superiore; la
burocrazia era arretrata nella cultura e nei metodi ma godeva di autonomia e prestigio; l’idea di
perseguire il bene comune era fondante per la politica e condivisa dal popolo.
Con l’avvento della seconda repubblica, anche per la spinta al cambiamento che veniva da molti
studiosi di area liberale o da marxisti definitivamente convertiti all’occidente, si avviò la stagione
delle riforme. L’introduzione dello “spoil system” ha sottoposto la burocrazia al potere politico sia a
livello centrale sia nelle amministrazioni degli enti locali: la riforma del titolo V ha spezzato, in
modo probabilmente irreversibile, l’unità del paese; le successive riforme elettorali hanno causato la
mutazione genetica del parlamento, da tribuna degli eletti a luogo di lavoro dei nominati; il modello
di partito ideologico ed identitario, caratterizzato però da una vivace dialettica interna, è stato
sostituito da quello del gruppo di potere stretto attorno ad un autocrate, assistito da qualche
maggiordomo e da una anonima servitù.
Il parlamentarismo è morto. Non è il caso di correggerlo. Nella seconda Repubblica, i governi
politici hanno sempre manifestato noncuranza, se non fastidio, nei confronti del parlamento. Gli
unici che hanno dato la sensazione di ritenersi soggetti alla volontà del parlamento sono stati i
governi tecnici. Tutti, peraltro, giubilati prima della conclusione naturale del loro mandato.
In questo contesto, ulteriormente accentrare il potere nelle mani del Presidente del Consiglio, non
mi pare una urgenza prioritaria.
La democrazia, ammoniva Norberto Bobbio, non è la volontà del popolo, ma il rispetto delle regole
che definiscono e disciplinano le istituzioni. Le regole, naturalmente, si possono anche cambiare,
ma mi riesce difficile immaginare che il parlamento attuale possa pensarne di migliori.
25 ottobre 2024