DEI DIRITTI E DEI DOVERI. SPUNTI PER IL SUPERAMENTO DELL’INFLAZIONE DEI DIRITTI

 

Tratto dalla rivista Metabasis 2017 novembre 2017 anno XII n° 24

Carmela Bianco

Università della Campania Luigi Vanvitelli

DEI DIRITTI E DEI DOVERI.
SPUNTI PER IL SUPERAMENTO DELL’INFLAZIONE DEI DIRITTI
DOI: 10.7413/18281567107

di Carmela Bianco

 

                                        Of rights and duties. Cues for overcoming the inflation of rights

Abstract

Far away are the times when human nature was considered an unmistakable organism. Discussions on whether or not to take action to treat diseases with genetic engineering procedures have always been favorable to those who are opposed, with the sole assumption of the will to defend their opinion. You claim the right of choice to do what you want your body. But the claim of a right does not rely on respect for a duty?

Duty calls for responsibility. Understanding the duties means getting ready for an endless conflict of rights. In today’s reality, there are still no rules that absolutely guarantee the right: justice does not live with direct experience. Only injustice has been experienced. This awareness can be useful to those who claim to be always right.

Keywords: rights, duties, justice, responsibility, biotechnology

Se, prima di Aristotele, le due parole greche tékhne ed epistéme venivano entrambe tradotte con arte, perizia, abilità, con lo Stagirita il senso del primo termine – tékhne – si approssima a quello della parola “mestiere” e quello del secondo – epistéme – si sposta verso il significato di “sapienza conoscenza”. Quindi, la tékhne diventa il sapere concreto, l’epistéme il sapere astratto

. Aristotele dà avvio così a una netta distinzione tra teoria e pratica, che sarà alla base anche della sua proverbiale divisione tra le scienze

( 2). . Nel corso della stagione tardomedievale e protomoderna, risentiranno di questa distinzione anche i saperi legati alle norme (sia ecclesiastiche che civili) e al diritto, al punto che la moderna scienza del diritto, o anche le grandi teorie generali dal sapere giuridico (si pensi, tra l’altro, al giusnaturalismo) dovranno sempre più fare i conti con una fondazione “scientifica” delle fonti del diritto, nonché delle loro applicazioni nella vita associata, sia ecclesiastica che socio-politica. La progressiva affermazione delle teorie scientifiche di tipo giuridico, tuttavia, pur contribuendo alla generalizzazione di vere e proprie generazioni dei diritti, contribuisce all’eclisse dei doveri, particolarmente esigiti dall’attuale società tecnoscientifica, a sua volta figlia della svolta epistemiologica moderna.

1 Le parole del diritto tra scienza e sviluppi ipertecnologici

La parola epistéme viene spesso tradotta, nelle versioni dai testi aristotelici, con “scienza”. Per i greci classici, conoscere qualcosa significava possederne una teoria enunciata in termini definiti. O, più precisamente, conoscere le cause remote e prossime di un determinato fenomeno o evento indagato (i latini diranno scire per causas). Il senso della parola scienza era piuttosto complesso, tale che nella ricerca filosofica resta tutt’ora aperto il cosiddetto problema della demarcazione tra ciò che può o non può essere definito scienza. Tra i vari significati ad essa attribuiti da Aristotele,scienza è anche un sapere che include un qualche livello di astrazione teorica, come si vede nella sua configurazione della fisica, che è una teoria scientifica del fisico (o filosofia seconda) e della losofia prima, che è una vera e propria teoresi generale delle sostanze seconde.

 

L’Occidente ha ereditato questa propensione alla precisione teorica, valutando l’intelligenza speculativa superiore all’intelligenza pratica. Oggi, più precisamente, si denomina scientifico «un approccio conoscitivo in cui si definiscono degli enti teorici, distinti dalla realtà, a cui ci si riferisce nella costruzione del sapere; un approccio in cui si costruiscono cioè dei modelli, che diventano autonomi e coerenti indipendentemente dalla loro applicabilità a problemi reali. Questo tipo di approccio nasce probabilmente in età ellenistica, per essere poi dimenticato e riscoperto a partire dal Rinascimento con la Rivoluzione Scientifica. Indubbiamente la scienza ha le sue radici nella cultura greca, nasce e si sviluppa in Occidente e viene esportata in altre parti del mondo solo nel secolo scorso» ( 3 ). La storia del pensiero scientifico insegna che la scoperta di nuovi e diversi ambiti di ricerca non è frutto di una saturazione degli altri ambiti, ma è dovuta a interconnessioni tra questi ultimi e dalla influenza che essi hanno subito dalle questioni che sono state loro poste dall’uomo e dal suo tempo. La prima rivoluzione scientifica, che proponeva l’idea che le teorie dovessero basarsi su osservazioni e esperimenti, ovvero dovessero attenersi ai fatti, non ha chiuso i confini del pensiero speculativo, anzi quest’ultimo, essendo il campo rispetto a cui le osservazioni empiriche fungono da “fatto”, appare «sostenuto dai progressi di conoscenza riferiti proprio ai frutti più maturi di quella stagione di nuove acquisizioni di metodo e di contenuti» (4) . Con la nascita della scienza moderna, attribuita, dopo la svolta copernicana (che era una teoria fisica su base geometrica), a Galileo Galilei, la scienza – ormai diventata teoria fisica sulla base di sperimentazioni empiriche e prove-riprove – comincia a differenziarsi dalle altre discipline di studio filosofico-teologico che, a loro volta, nella stagione bassomedievale avevano autodeterminato la “scientificità” del loro peculiare modo di sapere, rielaborata sostanzialmente sulla base di una rivisitazione aggiornata dello schema aristotelico. Ne risentiranno anche le teorie e le prassi giuridiche. La filosofia e la teologia a loro volta, ancora oggi, risentono della necessità di un raffronto con le metodologie scientifiche, che renda ammissibile l’approccio ermeneutico della loro ricerca, ma non la riduca a una sorta di opinione soggettiva, non fondata sull’osservazione e incapace di stare ai fatti.

Per capire come si sia approdato a tutto ciò, è utile fare un breve riferimento a quell’era di transizione, quella cioè circoscritta tra l’evo antico e quello moderno, che condusse alla conquista di nuove opportunità di indagine sulla realtà, elaborando appunto una peculiare modalità scientificache avrebbe permesso, tra l’altro, di imbastire un discorso scientifico anche nel campo della teoria e della produzione del diritto. La scienza moderna, come si è accennato, viene intesa come una conoscenza esatta, acquisita dall’osservazione e dalla sperimentazione, svolte alla luce di un modello teorico, solitamente di tipo matematico, o più esattamente geometrico. Galileo Galilei, come già Copernico, non spiegava più i fenomeni con il solo ragionamento, ma dopo averli osservati, e formulata una o più ipotesi, cercava di riprodurli con esperimenti iterabili anche da parte di altri ricercatori, e ciò allo scopo di confermare o meno la validità dell’ipotesi. Ciò lo portò ad asserire che il campo della scienza e quello religioso sono separati e che lo studio dei corpi celesti – fino a quel momento condiviso con gli studiosi delle Scritture sacre – fosse argomento unicamente scientifico, limitando così la superiorità della teologia sulla filosofia e sulla scienza, chiamata a stare ai fatti (ovvero a stabilire come vadiano i cieli, e non come si debbano raggiungere moralmente le sfere paradisiache). Francis Bacon, a sua volta, apre la strada a una nuova definizione del metodo induttivo – teso a cogliere forme nascoste dei fenomeni – ponendolo in rapporto con la ricerca scientifica, l’osservazione e la sperimentazione. Una tale configurazione del metodo scientifico appare, anche allo studioso di diritto, un compito di ordine ricognitivo (empirico-esperienziale-fenomenico), da ricondurre a uno sfondo di ordine generale (per esempio, come accade nel corso del giusnaturalismo moderno, uno sfondo di ordine metafisico, esistente “per natura” rispetto alla normazione positiva e fattuale. Ciò che, nella modernità, viene definitiva tecnica è, invece, la totalità delle attività di costruzione di strumenti per svolgere specifiche funzioni. «La tecnica è frutto di un impegno congiunto di pratica empirica e d’invenzione creativa, e non esclude nel suo bagaglio conoscenze di tipo “teorico”: i procedimenti e i metodi per la produzione degli strumenti possono essere rigorosamente definiti e messi per iscritto. La tecnica si distingue tuttavia dalla scienza in quanto il suo prodotto è sempre materiale e il fine ultimo è sempre di tipo pratico. La distinzione tra scienza e tecnica si pone dunque in termini di metodo e di finalità, e non è direttamente collegata al sapere in quanto tale»( 5)

Con l’avvento della tecnologia, di conseguenza, essendo essa il frutto dell’impegno congiunto di pratica e d’invenzione teorica, il primato dell’intelligenza speculativa viene a diminuire, con ilo rischio che prevalgano le sfere del desiderio e dell’emotività. La tecnologia può essere meglio definita come “tecnoscientifica”, ossia una tecnica che non si serve più della sola pratica empirica, ma utilizza le conoscenze teoriche acquisite dalla scienza per inventare nuovi prodotti. La velocità della tecnologia, però, rende difficile alla scienza tracciarne un quadro esplicativo completo. Infatti, l’accelerazione tecnologica non è da ricercare dentro lo sviluppo scientifico, bensì nell’ambito della stessa tecnologia. Negli ultimi decenni, scienza e tecnologia sono, perciò, sempre più legate, per cui si preferisce parlare di tecnoscienza, o anche di simbiosi problematica tra scienza e tecnica: «Non intendo certo sbrogliare l’intricatissimo rapporto tra scienza e tecnologia, ma solo rilevare che oggi […] la nostra capacità di agire ha superato di molto la nostra capacità di prevedere» (6) . La tecnologia è importante per quello che ci permette di fare, non di capire, e tuttavia non poche sono le ricadute teoriche di quella che l’Ottocento denominava la fabrilità umana. La sua indifferenza alla teoria va, insomma, di pari passo alla sua potenza omologante nei riguardi della realtà: «Insomma, è come se la conoscenza, lasciandosi alle spalle una lunga storia di astrazione progressiva e di formalizzazione, stesse cominciando ad incorporarsi […] nell’homo technologicus» ( 7) . E così, teoria e prassi operano indistinte e nelle realizzazioni tecnologiche diventano una cosa unica, coi rischi, però, di una autoriproduzione cieca e non più controllabile dei processi tecnologici i quali, come si teme, potrebbero di fatto sfuggire dalle mani dello stesso homo tecnologicus, che pure li aveva indotti. Si continua a comprendere, però, che la scienza, anche nei suoi attuali risvolti di ordine tecnoscientifico, resta comunque legata all’indole dell’uomo. Per natura, infatti, egli sente la necessità di dare spiegazione a qualsiasi tipo di fenomeno di cui fa esperienza, anche per consentirne la replicabilità e l’applicazione tecnologica. Lo stesso John Gribbin afferma nel suo testo, L’avventura della scienza moderna, che: «[…] la scienza è una delle massime conquiste (la massima, si può sostenere) della mente umana, e il fatto che il progresso sia stato in effetti compiuto, in grandissima parte, da persone di intelligenza normale procedendo passo dopo passo a cominciare dall’opera dei predecessori, rende la vicenda ancora più straordinaria, e non meno»( 8) . Lo scienziato ha, insomma, il compito di portare le sue ricerche sino al massimo delle sue capacità, mettendosi in tal modo al servizio dell’umanità, che potrà così usufruire degli esiti applicativi della ricerca più teorica. Ecco perché la scienza, anche per quanto appena sottolineato, ha assunto un’importanza fondamentale nella società attuale. È comunemente intesa come uno strumento atto al beneficio dell’essere umano, un mezzo per migliorare le condizioni di vita, è il tramite per l’elevazione della dignità umana, nell’ipotesi, più o meno condivisa, che un ampliamento del sapere comporti comunque un ampliamento delle possibilità e, dunque, un incremento di libertà, autonomia e dignità. Ma, ci si domanda particolarmente nel campo della teoria del diritto, che nel frattempo ha assunto la sua metodologia più avanzata dallo sviluppo delle scienze, è realmente così?

Gli ambiti di ricerca della scienza sono sempre più ampi e nuovi. L’effetto pratico più evidente della scienza sta nella possibilità di creare cose che arricchiscono la vita, anche se nel contempo la complicano. Si sta infatti creando una situazione sempre più manifesta in cui le sofisticate tecnologie create dall’uomo assumono un ruolo di preminenza sulla scienza, determinando una condizione nella quale il progresso ottiene l’effetto contrario, causando quindi conseguenze talvolta ancora più gravi, oltre che nuove questioni di gestione, anche normativa, delle nuove possibilità che comunque si aprono. Basti pensare, sul piano esemplificativo, a come stia diventando difficile equilibrare le legittime esigenze di autonomia e autodeterminazione sul piano della salute personale e sessuale, rispetto alle enormi possibilità tecniche nella progettazione, selezione e gestione di nuove vite embrionarie umane, oppure rispetto alle straordinarie promesse della medicina potenziativa. L’importanza, che in qualche modo è legata alla necessità stessa del ruolo delle scienze per la società contemporanea, è ormai indiscutibile. Il modo più diffuso con cui la scienza oggi si mostra è rappresentato dalla tecnica, anzi dalla tecnoscienza e dalle sue realizzazioni, come si è detto. Come afferma Giuseppe O. Longo: «Grazie alla scienza il mondo è profondamente cambiato. Il progresso scientifico e tecnologico ha raggiunto oggi un notevole sviluppo. Esso ha apportato da una parte miglioramenti considerevoli nella vita dell’uomo, ma dall’altra ha provocato un’alterazione dell’equilibrio naturale, i cui effetti potrebbero essere catastrofici in un prossimo futuro. Il progresso tecnologico con l’illusione di rendere la vita più semplice e più agiata, in diversi casi l’ha resa più difficile e complicata» (9). La capacità evolutiva delle innovazioni tecnologiche sta mutando profondamente la società, i gruppi umani, le relazioni familiari, la soggettività individuale, offrendo possibilità che fino a pochi anni fa erano del tutto impensabili. Ci si riferisce a quel tipo di progresso che raggiunge livelli di evoluzione sempre più elevati: è un processo inarrestabile che, assieme ai benefici, crea anche numerosi danni. Ne sono un altro esempio, le svariate innovazioni tecnologiche che hanno reso curabili molte malattie, riuscendo a cancellarne addirittura alcune, ma in altri casi se ne sono createaccidentalmente di nuove. La tecnologia, in una prima fase, si è assunta specifiche peculiarità umane di carattere fisico. La macchina ha sostituito gli sforzi fisici tipici dell’essere umano. A quest’ultimo restavano riservate le facoltà della mente.

Di seguito, alla tecnoscienza vengono spostate quelle proprietà intellettive di natura logica, in precedenza considerate esclusività della specie umana. Le facoltà della mente umana restano, oggi, solo parzialmente un’esclusività umana. I cervelli artificiali (o, più esattamente, informatici), infatti, non si limitano a subentrare alla memoria o a procedere all’assunzione di informazioni, ma partecipano nei processi decisionali. Non solo. La tecnologia interviene direttamente sul sistema biologico e sulle strutture antropologiche, riuscendo di fatto a mutare i caratteri costitutivi e fisiologici degli organismi individuali, che sono di fatto ibridati con le forme non organiche e non umane, oppure riescono ad avere autonomia biologica, anche se non sempre di carattere antropico (si pensi, sempre sul piano esemplificativo, alle chimere e agli ibridi, oppure agli embrioni umani criopreservati, che diventano un enorme potenziale di cavie ai fini delle ulteriore ricerca scientifica e tecnoscientifica): «La biotecnologia opera incisivamente sugli organi e sugli individui, sostituisce gli uni e manipola gli altri, può programmare e riconfigurare le caratteristiche genetiche, prospettando con ciò la possibilità di modificare non soltanto la morfologia degli individui, ma altresì quella della specie» (10) . Gli interventi tecnologici sono tali da essere capaci di investire l’ordine tradizionalmente naturale di ciò che faceva parte della sfera dell’azione umana, con non poche ricadute sul piano del contenzioso giuridico e della stessa produzione di norme in una società ipertecnologica: «I processi in atto tendono, dunque, a convertire la tecnologia in tecnocrazia esercitata sull’uomo medesimo e sul mondo alla sua portata. Le dinamiche che condizionano il mondo e ne plasmano i costumi in maniera maggiormente incisiva, a bene osservare, prendono sempre più le mosse dall’evoluzione delle tecniche, nonché delle forme di organizzazione che ne derivano, piuttosto che dalle idee» ( 11) .

Pensare di limitare il loro impatto nella nostra vita, è davvero inimmaginabile. Ciò che andrebbe, invece, evitato è la perdita della funzione strumentale della tecnologia divenuta, nel frattempo, un fenomeno che strumentalizza lo stesso essere umano (12) . È come dire che: «la macchina, protesi dell’umano, è diventata così potente da trasformare l’essere umano, di cui era protesi, in una sua protesi. […] Il fine – la persona – è diventato un mezzo e che il mezzo – la macchina – è diventato il fine» (13) .Ma ciò richiederebbe un investimento simbolico di tipo etico, economico, giuridico e politico, forse anche una nuova discussione sullo statuto epistemologico del diritto. Frattanto, si può almeno provare a svolgere qualche risonanza simbolico-ermeneutica dei fenomeni implicati nel processo fin qui descritto

2 Le scienze giuridiche al bivio?

In primo luogo, vi è un’indubbia differenza tra chi progetta e chi usa i prodotti della tecnologia. Il primo comprende il nesso tra potere e sapere, il secondo apprezza solo il potere che gli deriva dall’utilizzo della tecnoscienza. Ciò impone di prendere atto del potere che oggi essa esercita sulla regolazione dei rapporti umani, i quali sembrano esigere un nuovo processo di liberazione: «Dentro questa differenza sorgono le diverse immagini della tecnica e della loro connessione, pratico-teorica, con il tema della liberazione. […] Se oggi guardiamo ad alcuni dei risultati di questo enorme impegno dell’uomo occidentale (i grandi vantaggi per l’esistenza umana guadagnati attraverso lo sviluppo tecnico-scientifico), possiamo notare come si siano, di fatto, rese disponibili nuove forme di liberazione da alcuni dei vincoli più evidenti della condizione umana» (14) . Ad esempio, il vincolo spazio-temporale si è ridotto sia per i mezzi di trasporto, sia per quelli di informazione; inoltre, anche i vincoli biologici si riducono progressivamente per mezzo delle biotecnologie applicate alla vita umana.

Nelle biotecnologie, altresì, risulta palese la profonda mutazione delle capacità di dominio della realtà microscopica, che può essere sempre meglio sottomessa agli interessi dell’uomo, o meglio dell’uomo che possiede i capitali per produrre e gestire i propri interessi (o anche i propri desideri). Non trascurabili, infatti, sono gli ingenti interessi economici che si sono costruiti negli anni, per esempio intorno alle biotecnologie. Interessi che si sono sostituiti alle finalità scientifiche nei laboratori di ricerca: «L’intreccio tra i grandi interessi economici e finanziari ed i poteri forti (che ne sono condizionati) ha la capacità di imporre consumi, modelli di vita, persino valori di riferimento a generazioni malleabili, divenute quindi disponibili ad accogliere orientamenti etici favorevoli alla speculazione commerciale dei progressi delle biotecnologie, e d’altro lato manipolabili dai poteri politici sovranazionali coordinati a quei grandi interessi nel favorirne i traffici e trarne vantaggio per conseguire consenso e stabilità» ( 15 ).

Siamo ormai lontani dai tempi in cui la natura umana era ancora considerata un organismo immodificabile, allorché si interveniva per curarla, non per trasformarla, oppure per potenziarla. Non a caso prevalevano modelli teorici che presupponevano un ordine standard immodificabile, a cui lo scienziato del diritto avrebbe dovuto riportare gli eventuali scostamenti da ciò che è retto, ovvero per natura. A voler essere più precisi, la natura era considerata una peculiarità del potere divino, oppure un atto della potenza della natura, considerata autonoma, a sé stante, in linea con l’antico modello aristotelico di scienza, per cui per natura si danno alcuni accadimenti, la cui regolarità e iterabilità il teorico dovrà scoprire e l’esperto di diritto dovrà realizzare mediante norme che creano coesione e ripristinano l’armonia primigenia. Anche il corpo, inteso più come Körper che come Leib, era pensato, per sua essenza, organico, non modificabile, tutt’al più imitabile mediante applicazioni tecniche. Le biotecnologie ultramoderne, oltre ad aprire nuovi sentieri tecnoscientifici, cancellano questo antico pensiero. È mostrabile che esse sono in grado d’intervenire nella struttura stessa dell’essere vivente, donando allo stesso uomo la possibilità di trasformare-creare (produrre da capo, ibridare, clonare, modificare geneticamente…) l’essere umano: nel momento in cui si è riusciti a scindere e a ricomporre gli elementi fondamentali di un genoma, s’infrange l’originaria identità dell’essere umano. Da un’identità organica, acquisita nel concepimento, si è passati all’individuo programmato scientificamente, tramite l’ingegneria genetica e la procreazione medicalmente assistita. Così, l’uomo sta cedendo il più grande dei suoi poteri: quello di generare. Anche questo sta rappresentando un mutamento tracciato dal progresso scientifico e tecnico nei rapporti umani e, di conseguenza, anche nei rapporti giuridici.

Di qui una serie d’interrogativi che interessano molto il teorico del diritto: è realmente tutto ciò che fa sentire l’uomo accresciuto nella sua libertà? I risultati, a cui è giunta la tecnoscienza oggi, possono rappresentare il compimento dell’idea di Sartre che l’uomo è «ciò che si fa» ( 16 ) , nella totale espansione della sua libertà fino al superamento del limite dell’umano? I comitati di bioetica da tempo cercano di escogitare strategie, anche di tipo normativo, per limitare i margini di potere del nuovo demiurgo, finendo però per diventare come dei “grilli parlanti”, inascoltati e inopportuni nella civiltà ipertecnologica e utilitaristica. Intanto, però, continuano a sussistere interessi di ordine generale, che vengono codificati nel gergo dei cosiddetti diritti umani, i quali risultano ri-affermati costantemente, non soltanto nelle situazioni di violazione, per così dire, tradizionale della dignità umana (si pensi alle diverse forme di schiavitù, oppure alle situazioni di conflitto bellico), ma anche di fronte ai nuovi rischi comportati dalla rivoluzione tecnoscientificaattuale.

La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, promulgata a Nizza il 7 dicembre 2000, non a caso afferma, nell’articolo 3, alcuni principi certamente condivisibili, ma forse ancora incapaci di fronteggiare il potere della tecnoscienza, frattanto sempre più lontana dai problemi morali che, nel tempo, sono stati sollevati per mettere in discussione le sue procedure e i suoi risultati, e di fronte a un potere economico che, quando riscontra vantaggi, non limita la ricerca, anzi la finanzia e la incoraggia fino al paradossale. L’articolo 3 della Carta sottolinea, infatti, il «diritto all’integrità della persona», ed afferma: «1) Ogni individuo ha diritto alla propria integrità fisica e psichica.2) Nell’ambito della medicina e della biologia devono essere in particolare rispettati: a. il consenso libero e informato della persona interessata, secondo le modalità definite dalla legge; b. il divieto delle pratiche eugenetiche, in particolare di quelle aventi come scopo la selezione delle persone; c. il divieto di fare del corpo umano e delle sue parti in quanto tali una fonte di lucro; d. il divieto della clonazione riproduttiva degli esseri umani».

Le due questioni enunciate dal testo normativo sono di ordine teorico e insieme applicativo, com’è tipico della condizione tecnoscientifica contemporanea, che chiama sempre più in causa le scienze giuridiche ed etiche: l’eugenetica e il corpo considerato fonte di lucro. Jürgen Habermas, riflettendo su questi medesimi problemi, aveva evidenziato, appunto, i prodromi di una sfida in atto tra scienza ed etica: quando tentiamo di circoscrivere gli interventi di ingegneria genetica (scienza), per escludere quelli di eugenetica (etica), ci troviamo di fronte a confini difficili da determinare che, sul piano delle trasformazioni dei paradigmi scientifici, hanno dato luogo, come si osservava, a nuove metodologie tecnoscientifiche, con relative teorie di riferimento. Il punto è che, invece, avremmo bisogno di confini precisissimi per stabilire ciò che è cura della malattia e ciò che invece è eugenetica. La situazione di dilemma circa la via da prendere, diventa un’opportunità per quella concezione libertaria, che rimette le decisioni scientifiche alle valutazioni individuali, implicando un risultato in cui un diritto personale sovrasta i fondamenti naturali della vita: «Nella diagnosi del reimpianto dell’embrione», sottolinea Habermas, «risulta già oggi difficile rispettare i confini che separano l’eliminazione di predisposizioni genetiche indesiderate dalla ottimizzazione di predisposizioni desiderabili» (17 ) .

Ma sarà mai possibile demarcare (come voleva la scienza giuridica moderna) i campi di ricerca in una situazione ormai irrimediabile di ibridazione e polverizzazione dei saperi? Non è forse l’ibridazione dei saperi scientifici e tecnici il principale apporto delle rivoluzione scientifica postmoderna, di cui anche il diritto dovrebbe tener conto? E ancora: può una tale problematica (stabilire ciò che è cura della malattia e ciò che invece è eugenetica) essere affidata alla legislazione politica che, negli Stati di diritto, ha la competenza della produzione delle norme? «E se questa fosse, appunto, la risoluzione del problema, su quali principi etici si baserebbe la legislazione politica per disciplinare la problematica delle biotecnologie? Sappiamo che esistono centri di ricerca che lavorano per riprodurre, clonare organi umani, senza ovviamente avere l’autorizzazione di legge per tali ricerche» ( 18). E conosciamo prese di posizione di scienziati che, senza scrupolo alcuno, parlano di necessità di controllo dell’evoluzione, da sottrarre al caso e alle sue leggi piuttosto lente e affidare, piuttosto, alle sapienti mani dei ricercatori e degli scienziati: «È evidente che, in questi centri di ricerca, ciò che viene innanzitutto trasformato è la percezione culturale della vita umana. Questo significa che qualsiasi legislazione non potrà che drammaticamente inseguire e cercare di mettere ordine a tale mutamento di visione della vita dell’uomo. Allora la domanda diviene: come intendiamo pensare noi stessi? Come possiamo esistere in una comunità morale che considera, per principio, le persone nella loro “integrità fisica e psichica” (cioè determinata dal suo naturale patrimonio genetico), mentre la ricerca scientifica (in particolare le bioingegnerie) tende a ignorare o rifiutare tale principio?» (19 )

Non è una novità che le volte in cui si pone un problema relativo all’opportunità o meno di intervenire per curare malattie con procedure di ingegneria genetica, si inneschi un acceso dibattito tra progressisti e conservatori, volto a favorire la volontà di difendere la propria opinione, quale espressione della libertà del proprio pensiero etico, oltre che le proprie metodologie scientifiche e teorie generali del sapere. «E neppure è un caso che, dalla parte dei conservatori, si trovino coloro che hanno una fede religiosa: posizione apparentemente conservatrice, in realtà antagonista al relativismo progressista del “fai da te” etico.

Oggi la religione si presenta come una difesa culturale della nostra tradizione umanistica contro un postumanesimo scientista, e se nel nostro Occidente laico e secolarizzato non ci fosse ancora un sentimento religioso scomparirebbe qualsiasi dialettica sull’opportunità o meno di servirsi della biogenetica perla cura dei malati» ( 20 ) .È necessario individuare un equilibrio fra i poteri (economici, politici, scientifici, etici), una reciproca limitazione delle loro forze, cosicché nessuna prevalga sulle altre, praticando una modalità di scienza in grado di ritrovare l’armonia? È, forse, questa la sfida più impegnativa che gli ordinamenti giuridici devono oggi fronteggiare e che i teorici del diritto devono mettere a fuoco nei loro nuclei teoretici e possibili soluzioni giuridiche. Eppure, il percorso per giungere ad una corretta riflessione sui diversi lati di discussione sembra non poter fare altro che passare attraverso la limitazione di alcuni diritti, che tuttavia erano nati e sono stati riconosciuti proprio a motivo dei progressi tecnoscientifici. Di qui una peculiare situazione apparentemente senza via d’uscita, in quanto si rischia, per affermare la fondatezza di nuovi diritti, di doverne limitare altri, appartenenti a precedenti generazioni storico-sociali e storico-economiche

3 Meglio parlare di doveri?

Alcuni studiosi di simbolica giuridica e politica suggeriscono di aggirare l’impasse, ritornando a parlare di doveri, prima che di diritti. Il carattere peculiare dei diritti si desume dal modo in cui essi si sono affermati nel XVIII secolo. Un’affermazione che ha subito mostrato la sua natura politica. In quanto richiesta politica, essi sono espressione di rivendicazione di gruppi o di interi popoli. Ad essi può affiancarsi la legge del più forte, che impone erga omnes il suo modello di civiltà, che implica anche le forme per imporne l’osservanza generalizzata. Per dare riscontro di ciò, basta analizzare la prima genesi dei diritti moderni, e, quindi, è sufficiente ripensare prima alla rivoluzione americana e poi a quella francese, per osservarne già la diversità di genesi e di motivazioni ideali: «[…] se una differenza deve essere rilevata tra lo spirito che ha animato la dichiarazione dei diritti francesi e quello della dichiarazione americana, bisogna mettere in evidenza caratteristiche alquanto scontate; mentre il primo (francese) è dipendente da elaborazione intellettuale e da un programma politico-istituzionalistico eversivo degli ordini vigenti, il secondo (statunitense) è più legato alle coscienze e alle convinzioni morali, che ne hanno fatto in tutti i sensi una religione civile, di cui le istituzioni sono una sorta di prolungamento tutorio. Si potrebbe parlare di un’ideologia più intima e interiorizzata nell’area anglosassone, quindi meno dettata da sentimenti rivendicativi immediati, e di un’ideologia più strumentale nell’area francese e quindi ben più radicalmente segnata dalla politicizzazione» ( 21 ) . I caratteri di politicità rivendicativa, che nell’area statunitense non si mostrano nel loro costituirsi, compaiono in seguito e si esplicano nei diritti umani.

Il dovere, invece, sembra vantare una priorità storica e una logica sui diritti dell’uomo: «L’affermazione di un diritto può fondarsi solo sul rispetto di un dovere, quindi sul dovere; del resto un dovere può essere assunto o sentito indipendentemente dall’esistenza di un diritto» ( 22 ) . I diritti umani, dichiarati come irrinunciabili, manifestano, così, il loro carattere rivendicativo senza ancor rendere chiaro chi, dall’altra parte, dovrebbe farsi concretamente carico del loro adempimento. Discutere della priorità dei diritti e dei doveri diventa, perciò, oggi essenziale perché la scelta di una priorità implica una determinata tendenza etica: «Affermare la priorità dei diritti sui doveri, come molti sanno, significa imporre corrispettivamente dei doveri, sottraendoli alla sfera morale e rendendoli obblighi esterni. […] La priorità dei diritti sui doveri, se vuole confutare l’accusa di subordinare la morale alla politica, è costretta a dichiarare quali siano i fondamenti di tali diritti» ( 23 ) . Al pari dei diritti, anche per i doveri la scelta dei fondamenti è, come nella epistème classica, sempre o metafisica o ideologica. Fattori che, come si è già osservato a proposito della genesi delle metodologie scientifiche moderno-contemporanee, sono progressivamente caduti in crisi, a seguito dell’emergere del relativismo e dalla crisi della metafisica. Ma, se si riflette bene, a differenza dei diritti, il dovere chiama direttamente in causa il soggetto che deve rispettarlo. Inoltre: «la priorità del dovere corrobora per sua natura il principio di responsabilità, senza il quale anche ogni teoria dei diritti è vanificata» ( 24 ) .In una società in continuo mutamento come quella odierna, l’estensione dei diritti va diventando frutto delle pressioni sociali e degli interessi politici, tanto che le rivendicazioni che li alimentano non sono totalmente adeguate agli oneri che impongono, come si è osservato in alcune esemplificazioni della società ipertecnologica. Non solo. Tali rivendicazioni sono volute a tutela dell’uomo, che è parte di quel sempre più complesso sistema di relazioni in cui i diritti umani si trovano coinvolti. Dinanzi all’eterogeneità, sia dei soggetti sia delle istanze, la nozione di essere umano va sottoposta a diversi interventi ermeneutici, ma ciò richiederà, forse, un ritorno alle istanze pre-scientifiche, allorché si riteneva, come si è visto, di poter cogliere delle ricorrenze “per natura” di determinati fenomeni storici e culturali? Se ci si attiene alla situazione tecnoscientifica in corso, resta la via della definizione di uomo in senso fisiologico, ma essa, in sintesi, dipenderà da accordi e decisioni, da assumere all’interno della cosiddetta comunità scientifica. Ciò appare a molti inevitabile, data la pressione da parte delle biotecnologie e, soprattutto, dei loro committenti e detentori.

Non dimentichiamo, tuttavia, che una già complessa definizione di persona, che è causa di numerosi dibattiti, risulterà ancora più complessa, una volta che si deciderà d’intervenire tecnicamente per la modifica dei caratteri genetici. Ciò causerà sempre nuove istanze di “elevazione a soggetto di diritto”, perché vi saranno nuovi soggetti – anche soggetti sub-umani o iper-umani, o almeno soggetti ibridi – che, infatti, entreranno nel circuito dei diritti. Da tempo sono in discussione i criteri per stabilire quando un uomo può definirsi morto, dal momento che le terapie accanite, i trapianti di organo e le sostituzioni di funzioni organiche, rinviano ad una decisione non più solo scientifica o ontologica, ma deontologica. Un decesso, quindi, è ormai divenuto un evento solo normativo e non più naturale. Ecco perché si può ben ritenere oggi essenziale che ogni individuo, in quanto parte di una comunità, debba venire a conoscenza (anche in senso epistemologico e metodologico) del proprio dovere verso l’altro, ancor prima di conoscere l’elenco dei propri diritti garantiti dalla collettività nazionale e internazionale. Ciò assicurerebbe una maggiore autoregolazione della società rispetto a una modalità in cui ogni individuo chieda solo quali siano i propri diritti. Sentirsi investito solo di diritti, significa imporre ad altri dei doveri

4 Oltre l’età dei diritti, l’istanza dei doveri

È ben noto che la questione intorno ai diritti umani si fa assai presente, sul piano politico internazionale, dopo il secondo dopoguerra. Da allora, seguirono più avvenimenti, tra cui la proclamazione dei diritti nelle carte costituzionali di quei paesi che avevano riconquistato la libera vita democratica. Oltre a ciò, i diritti dell’uomo sono stati proclamati nella Dichiarazione Universale dei Diritti da parte dell’ONU nel 1948, e, per l’Europa, nella Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo del 1950, cui sono seguite la Convenzione Americana del 1969 e la Convenzione Africana dei Diritti degli Uomini e dei Popoli del 1986. Vanno ricordate, inoltre, dichiarazioni a carattere specifico, come quella dei Diritti del fanciullo del 1959, quella sulla Eliminazione della discriminazione nei confronti della donna del 1967, quella dei Diritti del minorato mentale del 1971

Non solo. Ciò che caratterizza la teoria dei diritti, oggi, è l’allargamento progressivo della cerchia dei soggetti di diritto. È, infatti, possibile considerare soggetti di diritto anche i cosiddetti “umani marginali”, come i minorati mentali, i pazzi e i bambini molto piccoli. Non solo. Oggi, tra i nuovi soggetti di diritto, si collocano le future generazioni e gli embrioni (soprattutto quelli prodotti ma non innestati in utero), gli animali non umani e l’ambiente ( 25 ).

Non dimentichiamo che Hannah Arendt, in Le origini del totalitarismo, sostenne che «il diritto ad avere diritti, […] dovrebbe essere garantito dall’umanità stessa» ( 26 ) .La storia dei diritti dell’ultima fase del Novecento è stata caratterizzata dalle rivoluzioni, insorte nel periodo, delle donne, degli ecologisti, degli omosessuali, della scienza e della tecnica. La libertà s’incarna ormai nella diversità sessuale, nell’attenzione per il corpo, nel rispetto per la biosfera, nell’uso non aggressivo delle innovazioni scientifiche e tecnologiche… Quanto detto, serve a sottolineare l’entrata definitiva nell’età dei diritti ( 27 ) , oggi divisi addirittura in generazioni. Ed è così,che accanto ai diritti di “prima generazione”, quelli cioè di libertà, a cui abbiamo fatto già cenno, si sono affermati quelli di “seconda generazione”, ossia quelli politici (diritto all’autonomia) e sociali (diritto al lavoro, alla casa, alla salute, alla istruzione). Di seguito, si sono aggiunti i diritti di “terza generazione”, i diritti, ovvero, di solidarietà, il diritto allo sviluppo, alla pace internazionale, ad un ambiente protetto, alla libertà di informazione e, poi, i diritti in cui il soggetto è rappresentato dagli individui in quanto gruppi, come la famiglia, la nazione, l’umanità tutta. Ultimi, almeno per adesso, troviamo i diritti di “quarta generazione”, ovvero quelli che potremmo chiamare bioetici, strettamente collegati con lo sviluppo di nuove tecnologie soprattutto nel campo biologico e medico. Sono piuttosto noti gli effetti della ricerca biologica e degli studi che si stanno facendo sul patrimonio genetico, molte dei quali tra alcuni anni potrebbero essere ben accetti dall’umanità (le cui tematiche fanno ormai pensare a un futuro costituirsi dei diritti di “quinta generazione”). Al pari degli altri diritti (prima, seconda e terza generazione), anche i “nuovi diritti” (quelli di quarta generazione o delle generazioni a venire) vanno considerati come altrettanti strumenti di tutela,elaborati dalla scienza del diritto e dalla scienza della politica, degli individui contro il potere, sia economico sia tecnologico, che sottovaluta le esigenze dei singoli individui. Questo parlare di “generazioni” non deve indurre a pensare che ogni nuova generazione condanni all’obsolescenza tutte le precedenti. I diritti, così distribuiti, si riunificano intorno alla persona e si presentano come indivisibili.

La richiesta di nuovi diritti solleva, tuttavia, come si accennava, una grave aporia: se tutti questi diritti sono tutti fondamentali, alla fine niente risulterà fondamentale. D’altra parte, è intuitivo che i diritti umani non possono essere tutti di eguale peso normativo, soprattutto quando sono in tensione gli uni con gli altri. Alain Laquièze ha sostenuto che quanto più il predicato ‘fondamentale’ si amplia, includendo una quantità crescente di diritti soggettivi, tanto più aumenta la necessità di relativizzarli e condizionarli ad altri diritti concorrenti  ( 28 ) . Si osserva, inoltre, che l’inflazione normativa, prodotta a garanzia della tutela di questa pletora di diritti, può rendere problematica l’effettività dei nuovi diritti e l’individuazione dei soggetti istituzionali provvisti della competenza necessaria per farli valere a livello nazionale e internazionale. I diritti vengono, così, adoperati in modo aggressivo e con l’esclusivo scopo di far prevalere un interesse personale, senza considerare più quello altrui. Ogni uomo si allontana sempre più dagli altri, ritirandosi in un proprio mondo da dove impugna i propri diritti. Ciò dovrebbe far riflettere che non nei diritti, ma nella comunità, risiede l’unica salvezza per le persone. E in quanto parte di una comunità, l’uomo ha dei doveri ( 29 ) .

Continuare a sottovalutare i doveri nella stagione della moltiplicazione dei diritti, significherebbe, insomma, accettare la disgregazione della società e prepararsi a un costante scontro fra diritti. Nulla esprime di più il legame politico fra i membri della società, favorendo altresì il senso di appartenenza al corpo sociale, del senso di responsabilità sentito verso gli altri membri. Negli ultimi decenni il diritto, prima d’essere un principio a cui fare riferimento per sanare un sopruso, è diventato il luogo in cui si sono accampate, di volta in volta, pretese, e privilegi. Una serie di richieste più o meno legittime, il cui incremento può causare l’incrinarsi dell’equilibrio democratico. La democrazia non può vivere di soli diritti. Questi diventano strumenti di democrazia, quando possono contare sull’unità politica e sui doveri di solidarietà su cui si fonda il processo di civilizzazione di un paese; altrimenti sono solo fattori di egoismo individuale. Una politica dei diritti finisce col produrre una perdita tanto dei rapporti sociali quanto di quelli politici. Tutti gridano il proprio diritto, nessuno si occupa di quello dell’altro. E se la parola diritto fosse sostituita con quella di dovere? Il dovere di prima, seconda, terza e quarta generazione, ad esempio. Che effetto produrrebbe, reclamare il dovere a dare e ricevere libertà, solidarietà e sussidiarietà, a dare e ricevere un ambiente protetto, a dare e ricevere la pace, soprattutto nell’attuale assetto internazionale, nel quale la globalizzazione economica e finanziaria ha provocato migrazioni di massa ed ha acuito la forbice socio-economica tra chi possiede e chi è scartato? Con molta probabilità, si rammenterebbe che quello che è necessario per noi, è indispensabile anche per gli altri.

È possibile, attraverso un’educazione al dovere, per esempio, ritornare al legame con la comunità o a quel rapporto dialettico che il mondo surmoderno ha trasformato in rapporti liquidi (ovvero crescita del processo di individuazione)?30 Non è forse ripensando ai doveri che ci rendiamo conto che sono essi, in ultima istanza, a fondare i diritti? Quando si rivendica il diritto alla libertà di parola, non si sta forse sostenendo che ognuno dovrebbe sentire il dovere di lasciar esprimere opinioni a tutti, anche ai senza voce e ai futuri abitanti del pianeta? Vi è chi sostiene che modificare il proprio corpo con la tecnologia, non sia un vantaggio, ma un diritto. Certo, se c’è qualcosa che non piace, perché non modificarlo? Ma è pur vero che la riduzione del corpo a macchina alimenta la propensione a trasformarlo sempre di più in strumento,attivando un controllo continuo della persona, la quale viene espropriata del proprio corpo (nel senso di corporeità individuale), il quale passa nella disponibilità di più soggetti. Ma quale può essere il destino dell’individuo spossessato del proprio corpo? Quale il dovere della persona di tutelare la propria identità? Il mondo dei diritti è un mondo percorso da conflitti e contraddizioni. Evidenziare pedissequamente le violazioni e le sconfitte non può certo portare ad affermare che sia meglio eliminarle  ( 31 ) . Sapere che vi è un diritto violato significa denunciarne la violazione e agire affinché alle parole corrispondano le realizzazioni. Diritti e doveri sono entrambi necessari per una convivenza senza conflitti. Però, nella lista pressoché infinita dei diritti, abbiamo sviluppato oltre misura la categoria dei diritti inviolabili e, forse, trascurato la categoria dei doveri inderogabili, quindi eclissato le istanze etiche della coscienza morale e della decisione libera.

Ogni membro dell’umanità sa che ridurre in schiavitù un uomo è atto spregevole perché verso qualunque uomo bisogna sentire il “dovere al rispetto”, in quanto essere umano concreto, che, poi, coi diritti, diventa il diritto alla tutela. È quel sentire comune che può andare oltre la legge e divenire concezione universale. Si possono non rispettare i diritti che la legge impone, ma non si può venir meno a un principio se la salvaguardia di quel principio e la salvaguardia di sé. Il dovere impone giustizia. Ma già i classici si domandavano cosa sia la giustizia.

5 Per una conclusione provvisoria

Non è facile spiegare cosa sia la giustizia. Forse il motivo principale è da ricercarsi nella difficoltà a farne esperienza diretta. In effetti, è più semplice fare un esempio di ingiustizia: ricevere maltrattamenti, provare dolore con beneficio di altri e inique distribuzioni di oneri. Possiamo intuire cosa possa essere la giustizia solo patendo dell’ingiustizia. Platone sull’argomento insegnava come l’idea di giustizia nella sua totalità non sia altro che un’idea, appartenente quindi al mondo iperuranico, individuabile solo alla sapienza, ma non applicabile in nessun ordinamento istituzionale se non in parvenza. In sintesi, vive solo in una sfera ideale, che non è irreale, ma chiede di fungere da paradigma teorico in vista di attuazioni. A sua volta, il concetto formulato da Aristotele, nell’Etica Nicomachea (V, 3, 1131 a 10 – 1132 b 9) 32 parla della giustizia come la più importante tra le virtù etiche, la quale deriva direttamente dall’osservanza delle leggi dello Stato. Come le altre virtù etiche, la giustizia implica il giusto mezzo tra eccesso e difetto. E lo fa stabilendo una proporzione tra i membri della società; proporzione che, a seconda delle circostanze, potrà essere geometrica, quando si tratta di “distribuire” a chi più merita onori e vantaggi (giustizia distributiva), o assumere una forma aritmetica quando si tratta di riparare a un danno provocato o subìto (giustizia retributiva). Entrambe le forme di giustizia non includono norme sufficienti per accordare la scelta etica nei casi particolari.

La giustizia, in termini giuridici moderni, è solo una soluzione pratica surrogatoria. Inoltre, invece di apprendere i caratteri basilari della tradizione giuridica del diritto umano, la cui impostazione tratteggia soluzioni pratico-giuridiche di carattere anche universalistico, oggi «si preferisce rimanere irretiti negli ideologismi politico-istituzionali e progettare costituzioni omologanti, stendere carte ed elenchi di diritti, escogitare mezzi internazionali di coazione» ( 33 ) . L’applicazione concreta di principi di giustizia trova, insomma, attuazione solo tramite la giuridicità. Ma lo ius non è la iustitia. Lo ius, concetto che, nella sua denotazione etimologica precede quello di iustitia, nella mentalità giuridica romana era un’ars che comportava la ricerca del bene o del buono e dell’equo nella situazione data, individuando i criteri di un giusto equilibrio degli interessi in gioco nel contesto dato: «Tutta la nostra civiltà si muove tra questi poli teoreticamente referenziali. Ma l’atteggiamento più diffuso cade abitualmente in una contraddizione: scarta completamente la posizione teologica, perché quando proclama ciò che ritiene giustizia, come per esempio i diritti umani,non accetta di ragionare in termini di fede o di trascendenza; scarta nel medesimo tempo la posizione platonica con la sua immagine di una giustizia d’ordine superiore, perché la ritiene un’opzione dogmatica ed elitaria; proponendo per un’idea di giustizia che sia alla portata di tutti, si avvicina certamente, anche se forse inconsapevolmente, al modello aristotelico, ma non ne può accettare i fondamenti naturalistici, perché li giudica superati dalla scienza moderna; non prende in considerazione, o in maniera molto marginale, la posizione romanistica, forse per pregiudizio e quasi certamente per il predominio di interessi politici ed ideologici sopra quelli della convivenza mutevolmente ordinata» ( 34 ) . La giustizia non sembrava, insomma, avere alternativa se non quella di affidarsi ai conflitti ideologici che fanno ricadere la società sotto la legge del più forte. Forse un modello universalistico, come quello romano, capace di un’osservazione imperiale, quindi super partes, e al tempo stesso particolaristico, perché rivolto alla concretezza dei casi e a quel che si stabilisce sulla circostanza, potrebbe rappresentare una valida soluzione per un concetto di giustizia adattabile a una società chiamata a valorizzare i doveri, oltre che ad enumerare i diritti. In questo modello, infatti, il dovere è implicitamente chiamato in causa. Chi è posto di fronte a una decisione che coinvolge concretamente altri, sente la responsabilità e il dovere di un giudizio equo. In sintesi, per uno ius rispettoso delle necessità di tutti, deve esserci un dovere in equilibrio coi diritti. Il diritto alla libertà non ha senso se non viene unito al rispetto per la libertà degli altri.

La società più ordinata è quella in cui l’esercizio dei diritti e l’adempimento dei doveri si fondono nel più rigoroso equilibrio. È il dovere, tuttavia, che fonda il diritto. Si rivendica generalmente un diritto solo quando sia avvenuta la rottura dell’equilibrio suddetto, quando cioè un individuo si sente vittima di un’ingiustizia, dal momento che la controparte non adempie più agli obblighi stabiliti dalla legge o dal contratto. Si sostiene il proprio diritto per richiamare la controparte al proprio dovere. Se, come abbiamo già evidenziato, si tende a esasperare la pretesa dei diritti senza mai parlare dei doveri, ecco che i diritti, nonostante le teorie scientifiche di supporto, tendono a perdere la loro forza. Una democrazia che consiste nel diritto a non aver nessun dovere, potrebbe rappresentare il sistema più sicuro per non avere alcun diritto

Carmela Bianco

note

1 Cf. A RISTOTELE , Metafisica, in G. R EALE , (cur.), Bompiani, Milano 2000; Id., Organon, Bompiani, Milano 2016; Id., La fisica, in R. R ADICE (cur.), Bompiani, Milano 2011.
2 Aristotele distingue due grandi classi di scienze: quelle che hanno come oggetto il necessario e quelle che hanno come oggetto il possibile. Le prime sono le scienze teoretiche. Esse si occupano di ciò che è o ciò che avviene necessariamente sempre o per lo più nello stesso modo. Per necessario si intende ciò che non può essere o avvenire diversamente da come è o avviene. Poi ci sono le scienze pratiche e poietiche. Esse concernono ciò che può essere in un modo o nell’altro. Questa è la caratteristica propria dell’azione e della produzione di oggetti. Azione (praxis, da qui pratiche) e produzione (da poieo , da qui poietiche) si distinguono per il fatto che l’azione ha il proprio fine in se stessa, mentre la produzione ha il suo fine fuori di sé. Ritornando alle scienze teoretiche: il fine è la verità e la base è il sapere per il sapere: Aristotele effettua una tripartizione: le scienze teoretiche sono 1) fisica 2) matematica 3) filosofia prima. Si distinguono per l’oggetto di studio. La fisica, per Aristotele, è la filosofia seconda: essa studia oggetti che esistono di per sé, ma sono mutevoli. La matematica studia oggetti che non mutano, ma che di per sé non esistono. La filosofia invece analizza oggetti che non si muovono e che esistono di per sé (Cf. G. R EALE – D. A NTISERI [curr.], Storia della filosofia, vol. I, Bompiani, Milano 2008).
3 T. C ASTELLANI , Scienza, tecnica, tecnologia: un intreccio indissolubile, in Insegnare 1-2 (2011).
4 A. G ARGIULO , Presupposti filosofici del rapporto scienza-teologia, in F. Asti – E. Cibelli (curr.), Scienza e fede in dialogo, Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, S. Tommaso d’Aquino, Napoli 2014, 39.
5  T. C ASTELLANI , Scienza, tecnica, tecnologia: un intreccio indissolubile.
6 G. O. L ONGO , Uomo e tecnologia una simbiosi problematica, in Mondo digitale 2 (2005), 15.
7 Ivi, 17..
8 J. Gribbin, L’avventura della scienza moderna, Longanesi, Milano 2002.
G. O.L ONGO , Uomo e tecnologia una simbiosi problematica, 22. 10 G. M. C HIODI , Speculum Symbolicum III. Bagliori occulti della giustizia, Artetetra, Capua 2017, 16.
10 G. M. C HIODI , Speculum Symbolicum III. Bagliori occulti della giustizia, Artetetra, Capua 2017, 16.
11  Ivi, 17.
12  U. G ALIMBERTI , Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano 1999.
13 G. L IMONE , La macchina delle regole, la verità della vita. Appunti sul fondamentalismo macchinico nell’era contemporanea, in Giuseppe Limone (cur.), L’era di Antigone. La macchina delle regole, la verità della vita, Quaderni del Dipartimento di Giurisprudenza della Seconda Università degli Studi di Napoli, n. 8, FrancoAngeli, Milano 2015, 18.
14 A. P ESSINA , L’uomo e la tecnica: annotazioni filosofiche, in M.L. DI P IETRO – E. S GRECCIA (curr.), Biotecnologie e futuro dell’uomo, Vita e Pensiero, Milano 2003, 12-13.
15 G. A COCELLA , Eugenetica ed etica sociale nel «Mondo nuovo» di A. Huxley, su: file:///C:/Users/kar/AppData/Local/Temp/3217-3304-1-PB.pdf, 87.
16 J. P. S ARTRE , L’ esistenzialismo è un umanismo, Armando editore, Salerno 2014.
17 J. H ABERMAS , Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale, in L. C EPPA (cur.), Biblioteca Einaudi,Torino
18 S. Z ECCHI , Paradiso occidente. La nostra decadenza e la seduzione della notte, Mondadori, Milano 2016, 145.
19 S. Z ECCHI , Restare umani o valicare il limite. Il dilemma delle biotecnologie, su: http://www.ilgiornale.it/news/restare-umani-o-valicare-limite-dilemma-delle-biotecnologie-1330923.html, accesso del 19 luglio 2017 ore 17:26.
20 Ibidem. 2010.
21  G. M. C HIODI , Precedenza dei doveri sui diritti, che per altro è meglio definire diritti fondamentali, in G. M. C HIODI (cur.), I diritti umani: un’immagine epocale, Guida editore, Napoli 2000, 15. Sull’argomento si veda anche Id., Invito ad una critica dei cosiddetti diritti e ad una rinnovata attenzione ai doveri, in L. B IANCA – A. C ATELANI (curr.), Giusnaturalismo e diritti inviolabili dell’uomo, Università degli Studi di Siena, Arezzo 2009, 49-60; Id., Improprietà dei diritti umani, in A. T ARANTINO (cur.), Filosofia e politica dei diritti umani nel terzo millennio. Atti del V Congresso dei filosofi italiani. Lecce, 13-14 aprile 2000, Giuffrè, Milano 2003, 67-93.
22 Ivi, 16.
23 Ibidem.
24 Ibidem.
25 Sull’argomento F. D EL P IZZO – P. G IUSTINIANI (cur.), Bioetica, ambiente e alimentazione. Per una nuova discussione, Mimesis, Milano 2015; Id., Biosfera, acqua, bellezza. Questioni di bioetica ambientale, Mimesis, Milano 2017.
26 Cfr. H. A RENDT , Le origini del totalitarismo, trad. it. di A. Guadagnin, Milano 1996, 413.
27 N. B OBBIO , L’età dei diritti, Einaudi, Torino 2005. Con l’espressione “età dei diritti”, ci si riferisce alle discussioni sorte sull’“uomo della strada”, in termini soggettivi: ogni rivendicazione morale, giuridica ed economica viene formulata nel linguaggio dei diritti, e non più in quello della giustizia e del bene comune.
28 A. L AQUIÈZE , État de droit e sovranità nazionale in Francia, in P. C OSTA – D. Z OLO (curr.), Lo Stato di diritto: storia, teoria, critica, Feltrinelli, Milano 2002, 308-311.
29 E. M ORIN , Etica, Raffaello Cortina editori, Milano 2005.
30 Z. B AUMAN , Modernità liquida, Laterza, Bari 2006.
31 Cf. S. R ODOTÀ , Il diritto di avere diritti, Laterza, Bari 2013
32 ARISTOTELE , Etica nicomachea, in C. Mazzarelli (cur.), Bompiani, Milano 2000.
33 G.M. C HIODI , Speculum Symbolicum, 43.
34 Ivi, 48-49

 

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