“Ricorrenze” di Giovanni Monchiero
Ricorrenze
Domani è la Festa della Repubblica, mia coetanea. Ma, di anni, ne dimostra di più.
Mi riferisco non alla repubblica come forma di governo, che quasi tutti auspichiamo irreversibile, ma alla Repubblica nell’accezione costituzionale di cosa pubblica, sinonimo di Stato, personificazione di identità nazionale e democrazia.
È la democrazia ad essere invecchiata, e non solo in Italia. Dopo la caduta del muro qualche pensatore audace e fantasioso parlò di fine della storia. Ma la storia continua a camminare con i suoi ritmi, tra successi, errori, mostruosità. Paesi che sembravano aprirsi alla democrazia liberale, così come è stata pensata e costruita in occidente, sono regrediti nell’assolutismo di nuove tirannidi che si alimenta di nazionalismo e genera di nuove guerre. Nel sud del mondo la globalizzazione dei commerci ha migliorato le condizioni di vita di miliardi di affamati, senza far nascere in loro alcun anelito alla democrazia, bene per sua natura non esportabile.
In America e nella vecchia Europa l’involuzione della società sta minando la solidità di istituzioni frutto, anche quando relativamente recenti, di secoli di pensiero e di lotte. In pochi decenni questo patrimonio si è impoverito al punto da far temere che possa, in un giorno non lontano, andare disperso. Gli isterismi collettivi emersi durante la pandemia, e di nuovo oggi di fronte alla guerra, sono il sintomo di un malessere profondo. L’uomo del nostro tempo, solo, tecnologicamente “social”, esposto a un continuo bombardamento di informazioni esasperate, deformate, deliberatamente false, concentrato su sé stesso, non riesce più a pensare al bene comune. Il livello della classe politica, delegata alla rappresentanza in libere elezioni, è l’effetto evidente di questa carenza di discernimento.
Nelle democrazie – scrisse un saggio – raramente i governanti sono peggiori dei governati. L’ironia ci spalanca gli occhi su un problema epocale, forse irrisolvibile.
Non sono neppure passati quattro mesi dal discorso di Mattarella, all’inizio delle suo secondo mandato. In una circostanza straordinaria, il Presidente ritenne suo dovere dettare al Parlamento e, per il principio transitivo della rappresentanza, a tutti i cittadini, l’agenda delle cose da fare. L’aula venne sommersa da un tripudio di applausi. Tutti concordi, destra e sinistra, governo e opposizione.
Poco o nulla è stato realizzato. In compenso fiorisco iniziative estemporanee, dettate da una gran voglia di propaganda elettorale. E’ pur vero che tre settimane dopo quel discorso, ai confini dell’Europa è scoppiata la guerra. Ma non deve essere una scusa, se mai un’aggravante. Se nemmeno di fronte alle prove della storia (la pandemia, la guerra) pur stimolati da un Presidente di riconosciuta saggezza e guidati da un Primo ministro di grande autorevolezza, un popolo e i suoi rappresentanti non riescono a trovare unità di intenti, diventa difficile sperare nel futuro.
Nella ricorrenza del 2 giugno, paragonare il livello dei nostri governanti con la classe politica che li ha preceduti, è un esercizio comune, un discorso da bar. I protagonisti della decadenza della Prima Repubblica in confronto a quelli della seconda sembrano dei giganti. Ancor più impietoso ogni riferimento a coloro che la Repubblica l’hanno fondata, scritto la Costituzione, governato la rinascita e lo sviluppo del Paese.
Suggerisco, per non cadere nella banalità consolatoria del qualunquismo, di accantonare per un attimo la politica e passare all’album di famiglia, guardare alle generazioni che ci hanno preceduto, scorrendone le fatiche, le scelte di vita, le realizzazioni, gli esempi. Non possiamo non convenire che, quasi sempre, gli elettori di quei grandi della politica, i nostri padri, i nostri nonni, furono migliori di noi.
1 giugno 2022