L’uovo di Colombo di Giovanni Monchiero
L’uovo di Colombo
L’Italia è una repubblica fondata sull’emendamento.
Si tratta, chiaramente, di un’iperbole. Per renderla più vicina alla realtà, potremmo dire che l’istituto
dell’emendamento anima gran parte della vita parlamentare. Subito dopo, viene l’ordine del giorno,
inutile orpello alle leggi appena approvate che consente, però, ai peones in cerca di gloria di
conquistarsi minuti di notorietà e scalare posizioni nelle classifiche di produttività dei parlamentari.
Tornando all’emendamento, trascuriamo l’attività delle Commissioni e limitiamoci a quelli
presentati in aula al momento dell’esame delle proposte di legge. Ogni volta se ne scrivono a
migliaia e se ne esaminano alcune centinaia. Il record di proposte venne stabilito nel 2015 da
Calderoli, che, con l’aiuto di un software, presentò 82.730.460 emendamenti al ddl di riforma
costituzionale. Qualcuno calcolò che per stamparli, almeno in duplice copia, sarebbero occorse 824
tonnellate di carta. Per dichiarali inammissibili, al ritmo di 10 secondi l’uno, si sarebbero impiegati
26 anni. Vennero ovviamente ritirati, ma l’episodio resterà nella storia come il primo vagito
dell’intelligenza artificiale applicata alla politica.
Gli emendamenti cadono a decine sotto la mitraglia delle maggioranze, ma qualcuno ce la fa.
Concedere alle minoranze qualche piccolo successo favorisce il clima dei lavori parlamentari.
Talvolta, invece, son dolori. L’approvazione di un emendamento non concordato può mettere in
crisi il governo. Accadeva frequentemente nella prima repubblica. La dialettica interna a
maggioranze immutabili sfociava in ricorrenti, innocue crisi di governo. Oggi, maggioranze forti
nei numeri ma mal assortite richiedono ai propri sostenitori maggiore fedeltà, per scongiurare
repentini ribaltoni.
Al di là delle implicanze politiche, può anche accadere che un emendamento sbocciato quasi per
caso venga accolto con grande clamore. La settimana scorsa, in sede di conversione di un DL
sull’Inps e altri Enti pubblici, è stata approvata una norma che consente ai medici di Guardia
Medica di esercitare anche la funzione di medico di base sino ad un massimo di mille assistiti. In
realtà la norma si limita da estendere, nei numeri, una facoltà già riconosciuta ma, evidentemente,
poco esercitata.
A prescindere dalla sua portata pratica e dalla consapevolezza dei proponenti, sul piano dei principi
la norma sottende una rivoluzione copernicana nella definizione del ruolo del Medico di Medicina
Generale. Suggerisce la logica che, se il medico di Guardia Medica (rectius: di Continuità
Assistenziale) è legittimato a fare il medico di famiglia, per la proprietà transitiva dell’uguaglianza
il medico di famiglia possa fare la guardia medica.
A piccoli passi dettati dall’emergenza, pare si stia colmando la distanza fra Medicina Generale e
Guardia Medica. Separare nettamente le due funzioni è un errore che ci portiamo dietro
dall’istituzione del Servizio sanitario nazionale. Una sorta di peccato originale da cui discende la
debolezza delle cure primarie.
Nella percezione dell’utente, la Guardia Medica – garantita da professionisti non conosciuti
personalmente e ritenuti meno esperti – costituisce un servizio utilizzabile solo per qualche ricetta
urgente. Per ogni altra emergenza, meglio non perdere tempo ed andare direttamente in Pronto
Soccorso. Per contro, la presenza di un servizio di supporto (per una quota oraria complessivamente
superiore a quello istituzionale!) ha svilito anche la funzione del Medico di Famiglia, spesso
considerato dagli assistiti poco più di un necessario passaggio burocratico.
Il futuro delle Cure Primarie sta nella continuità della presa in carico. Lo ripetiamo da qualche anno,
ma l’argomento è tabù. Potete scommettere che i medici di Guardia Medica, beneficiati
dall’emendamento, appena raggiunto un numero di scelte adeguato rinunceranno al loro precedente
lavoro, dando vita al solito circolo vizioso.
Per risolvere il problema, non basta una furbata. Ci vuole il sapere, la determinazione e la pazienza