Le riflessoni di settembre:di Giovanni Monchiero

Ius operum

A smuovere la politica dai torpori ferragostani ci ha provato Sallusti con il famoso titolone a tutta
pagina in cui denunciava il complotto contro Arianna Meloni, ordito da opposizione, giornalisti di
area e toghe rosse. Immediata fiammata di commenti dall’ombrellone: incredulità e ironie da
sinistra, multiforme sdegno da destra. Su tutto una secchiata d’acqua della sorella Primo Ministro:
“se fosse vero, sarebbe gravissimo”. Che chiude ogni discorso e le consente di tornare in piscina
con la figlioletta Ginevra e il riesumato Giambruno. Passa qualche giorno e sulla vita di Arianna si
abbatte uno scossone vero: l’annuncio della fine della relazione con il Ministro Lollobrigida, dopo
vent’anni e due figlie. Cose che capitano. Con frequenza ben superiore a quella dei complotti.
E poiché il tentato parricidio del fondatore e garante da parte dell’attuale, ingrato, capo politico del
Movimento non ha turbato nessuno al di fuori della stretta cerchia dei fedelissimi dell’uno e
dell’altro, ecco che a prendersi la scena è stato il mite Tajani. Nello stagno ha scagliato un macigno,
lo ius schole, versione limitativa e meritocratica dello ius soli: i figli degli immigrati nati in Italia
potrebbero acquisire la cittadinanza al termine di un ciclo di istruzione, non inferiore alla scuola
dell’obbligo, che consenta loro di assimilare le basi della nostra cultura. La proposta vaga in
parlamento da anni, mai tradotta in legge per la fiera opposizione delle destre che oggi, al loro
Ministro, oppongono che nulla del genere è previsto dal programma del governo.
Lasciando il dibattito al suo decorso politico (con ogni probabilità, in fondo allo stagno) vorrei
ricordare che, in materia di concessione della cittadinanza, applichiamo da anni una variante che
definirei ius ludorum (il plurale rende meglio). Chiunque sappia tirare calci o schiaffoni ad una
palla, o possegga naturale predisposizione per una delle discipline olimpiche, viene con procedure
straordinariamente celeri, assurto tra gli italici atleti. E non è nemmeno il caso di esserci nati in
Italia, basta volerci vivere. Come il saltatore cubano Andy Diaz Hernandez che ha esordito in
maglia azzurra a Parigi regalandoci un prestigioso bronzo nel salto triplo. Scavalcando migliaia di
rifugiati politici, in vana attesa.
Sono assolutamente favorevole alla meritocrazia, in tutte le sue forme. A cominciare dal mondo
dello sport che, almeno nei principi, è consacrato al riconoscimento del merito in un contesto di
regole poste a tutela della parità fra i concorrenti e della oggettività del risultato. Il guaio è che per
eccellere occorre il favore di madre natura che a pochi concede un fisico all’altezza.
Per discernere in materia di cittadinanza, servono criteri più generali, applicabili a tutti. E non solo
ai nati in Italia. Non mi pare giusto prendere in considerazione i figli, che hanno avuto la fortuna di
frequentare la scuola pubblica, e non i loro genitori che in Italia ci sono giunti da lontano,
ignorandone lingua e costumi, e, a prezzo di fatiche e umiliazioni, hanno saputo inserirsi nel mondo
del lavoro e guadagnarsi onestamente da vivere. A questi milioni di italiani aggiunti che
contribuiscono alla sopravvivenza della nostra economia dobbiamo offrire la possibilità di sentirsi a
pieno titolo cittadini. Sarebbe un atto di giustizia e un segno della nostra capacità di discernere.
Nella realtà scarseggiano entrambe. Le nostre città sono invase da sfaccendati che vivono di
espedienti quando non si dedicano professionalmente al crimine. Che la loro presenza susciti
preoccupazione ed insofferenza è comprensibile. Ma estendere a tutti gli immigrati questo
sentimento di rifiuto è irrazionale. Gli uomini non si giudicano dal colore della pelle né dalla
provenienza. ma da quel che fanno, dal loro lavoro, dal rispetto delle regole di convivenza.
Concedere la cittadinanza a chi se l’è guadagnata lavorando, secondo criteri oggettivi applicati con
equità e sollecitudine, servirebbe anche a ricordare a tanti italiani immemori l’importanza delle
regole che molti, cittadini per diritto di nascita e di sangue, si ostinano ad ignorare.

6 setembre 2024

Tanto pe’ parlà

La notizia è racchiusa in poche righe, compressa fra eventi ben più importanti. L’apiario, con arnie
rigorosamente tricolori, collocato sul terrazzo del Ministero dell’Agricoltura e della Sovranità
Alimentare il 20 maggio, in occasione della giornata mondiale delle api, non ha superato l’estate. Le
miti api nostrane (apis mellifera Linneus) sono state sterminate da voraci vespe extracomunitarie e
calabroni indigeni, ben più robusti ed aggressivi.
“Abbiamo portato biodiversità nel cuore di Roma – ha commentato il Ministro – È vero, le api non
sono purtroppo sopravvissute, ma la morte è un fenomeno ciclico e naturale. Quello che conta
davvero è che “Apincittà” abbia funzionato”.
La comicità involontaria – tratto distintivo delle esternazioni di Francesco Lollobrigida – richiama
alla mente “l’intervento è riuscito, ma il paziente è morto”, battuta molto in voga nel secolo scorso
per stigmatizzare la supponenza del sapere medico, autoreferenziale fino a perdere il contatto con la
realtà. Le si affiancava un motto popolare anche più antico, “gli errori dei medici lì copre la terra”,
ispirato a bonario fatalismo.
Da allora – per venire ad un argomento serio – i rapporti fra medici e pazienti sono molto cambiati.
Per un paio di decenni si è affermata la tendenza ad intentare cause, spesso temerarie, nei confronti
del singolo professionista o della struttura sanitaria. Oggi si è diffuso un assurdo ricorso alla
violenza. Le cronache riferiscono di quotidiane aggressioni a medici e infermieri culminate nel vero
e proprio assalto all’ospedale di Foggia, condotto da decine di parenti e amici, follemente
determinati a vendicare la morte di una ragazza – vittima di un incidente stradale – con un
atteggiamento più vicino al regolamento di conti fra fazioni rivali che alla protesta per un presunto
disservizio.
Tutti invochiamo efficaci misure di polizia e punizioni dei colpevoli esemplari e rapide.
Aggiungerei, però, una domanda: che ci succede? Come è possibile che in pochi decenni si passi
dalla consolazione di un rassegnato umorismo alla violenza cieca e gratuita?
Quasi sempre, anziché cercare risposte a domande molto complesse si preferisce il ricorso al luogo
comune, all’ideologia, ai conformismi del pensiero dominante. Su La Stampa di domenica 1
settembre, Igiaba Scego, nota scrittrice italiana di origini somale, nel tentativo, condivisibile, di
stroncare le speculazioni razziste sull’omicidio di Sharon Verzeni, scrive: ”Il patriarcato non ha
colore. Il patriarcato vuole ucciderci tutte. Sharon è stata uccisa dal patriarcato due volte: da chi
l’ha uccisa e da chi ne ha usato le spoglie ancora calde”.
Parole senza senso. Cosa c’entra Moussa Sangare, uno sbandato con ambizioni da rapper e dj, con il
patriarcato? Ve lo immaginate un padre di qualunque luogo della terra e di qualsiasi colore e cultura
che insegna ai figli ad uscire di notte, con adeguata dotazione di coltelli, a massacrare sconosciuti?
Moussa Sangare non viene dal passato. È frutto del presente, di una società che non educa ed
emargina. Dovremmo pensare strumenti per correggere queste storture, non vaneggiare sul
patriarcato.
Per concludere con leggerezza questa raccolta di parole fuori luogo, dette così, tanto per dire,
meglio tornare alla politica che ne produce in grande quantità e ci muove al sorriso. “Qui si fa la
storia, non sono ammessi errori” – ha sentenziato la Meloni nel respingere le dimissioni di
Sangiuliano.

Frase solenne ed assertiva, adatta più ad una condanna che ad una frettolosa assoluzione, peraltro
ribaltata nel giro di ventiquattrore. La penosa autodifesa al Tg1, con lacrime, è stata fatale ad un
ministro che avrebbe dovuto lasciare ben prima, per manifesta inadeguatezza. Chi è preposto alla
cultura, mentre si accinge a celebrare la fondazione della sua Napoli, non può confondere i secoli
con i millenni; né ignorare che Galileo è nato settant’anni dopo la scoperta dell’America.
Chiedere ad un ministro alla cultura nel XXI secolo di scrivere la storia pare francamente eccessivo.
Nel caso di specie poteva limitarsi a studiarla.

13 ettembre 2024