Riflessione di fine anno di Giovanni Monchiero non poteva che essere sullo “stato di salute “della Sanità italiana
Buon anno, sanità
Un seppur faticoso ritorno alla normalità sembrava raggiunto, quando l’ultima variante del virus ha scatenato una nuova ondata caratterizzata da una impressionante rapidità di contagio: 30.000 nuovi casi al giorno, con 140 morti, tranne che a Natale quando sono stati la metà. Fin dall’inizio della pandemia, nei giorni festivi i morti si contano male. Un dettaglio che instilla qualche dubbio sulla nostra sbandierata capacità di apprendere dall’esperienza.
Come si sperava, l’ampia copertura vaccinale della popolazione sta limitando i danni. Ricoveri ospedalieri in reparto e in terapia intensiva, e decessi sono, rispetto ai contagiati, in percentuale molto inferiore a quella delle prime ondate. I vaccini servono davvero, anche se limitare a quattro mesi la validità del green pass dopo la seconda dose fa pensare che dovremmo vaccinarci tre volte l’anno: i no-vax ne trarranno facili spunti polemici. La situazione pare comunque sotto controllo. E ci autorizza a qualche considerazione generale sui due anni trascorsi in compagnia del Covid, per tentare uno sguardo al futuro.
Il Servizio Sanitario ha retto alla prova, ma ha anche palesato limiti strutturali, di risorse e di organizzazione. Il primo anno ha visto, nelle aree più colpite dal virus, autentici eroismi da parte del personale sanitario. Di negativo ha offerto lo spettacolo di 21 Enti – tra regioni e province autonome – in costante concorrenza nell’organizzazione della risposta più efficace e, soprattutto, nella sua comunicazione. Troppe parole, fra esibizionismo e propaganda. Solo con l’avvento di Draghi si è percepita la necessaria unità di intenti, cementata dal successo della campagna vaccinale affidata al gen. Figliuolo.
L’azione del governo merita un giudizio positivo. L’eccessiva frequenza con la quale si sono cambiate le regole delle misure di prevenzione potrebbe autorizzare critiche, ma guardiamoci attorno: non è che gli altri paesi occidentali abbiano fatto di meglio.
La delusione viene dal PNRR. La Missione 6, quella che ci riguarda, destina alla sanità risorse rilevanti ma tradisce l’assenza di idee atte ad indirizzare il cambiamento. Perché – non possiamo dimenticarlo – il SSN va rivisto, direi reimpostato.
Negli anni immediatamente precedenti la pandemia si dubitava, addirittura, della sua sostenibilità. Una ventina di miliardi di investimenti non devono indurci a considerare superato il problema, anzi. Quasi sempre un investimento strutturale comporta incrementi di spesa corrente: case della salute ed ospedali di comunità non faranno eccezione. Nelle poche righe che il PNRR dedica al problema si avverte una carenza di visione, che forse non si poteva pretendere dai tecnici di Palazzo Chigi, ma da Ministero e Regioni sì.
L’incremento del Fondo Sanitario Nazionale previsto nel DEF appare insufficiente a far fronte ai nuovi oneri. E non è nemmeno solo questione di soldi. Da anni si lamenta che una errata programmazione degli accessi alla formazione universitaria ha impoverito il servizio sanitario delle indispensabili risorse umane. Ammesso che si riveda il “numero chiuso”, ci vorranno almeno dodici anni per formare un numero di nuovi medici sufficiente a compensare i pensionamenti. Questa doglianza non è nuova. La riprendo non per alimentare il piagnisteo ma per rafforzare la tesi della necessità di riorganizzazione.
È, infatti, opportuno ricordare che, in un quadro di generale carenza, al settore pubblico del Servizio sanitario Nazionale concorrono più di 50.000 Medici di Medicina Generale e Pediatri di Libera Scelta, 18 mila medici di Guardia Medica e circa 20.000 specialisti ambulatoriali in convenzione. Un numero non irrilevante di professionisti – gravati di compiti burocratici o relegati in attività pressoché inutili – il cui apporto al SSN potrà crescere solo in un contesto di forte innovazione organizzativa.
Non che manchino da ordini professionali, sindacati, società scientifiche, stakeholders i richiami al “potenziamento del territorio”. È diventata una specie litania. Osservo che il “potenziamento” richiede risorse, che non ci saranno. La riorganizzazione richiede, invece, una “visione”, vale a dire un insieme coerente di idee, che non costano nulla. Al momento non c’è nemmeno questa.
Passare da una sanità basata sulla cura e quindi “ospedalocentrica” ad una fondata sulla tutela e quindi sulla presa in carico “territoriale”, comporta una rivoluzione copernicana. Non basterà costruire qualche casa (per ora vuota) aggiungere qualche “call center”, dotarsi di nuove tecnologie. Occorre ripensare, per riorganizzare.
Ecco un augurio appropriato al nostro servizio sanitario per l’anno che viene. Coloro che lo governano maturino una visione e trovino forza ed unità di intenti per attuarla.
28 dicembre 2021