Il ricordo di Luigi Covatta:Stefano Rolando , Pietro Caruso , Celestino Spada,Danilo Di Matteo e Bruno Zanardi .I
“tratto da Mondoperaio di Aprile 2022”
Stefano Rolando
Il peso della perdita,il senso della mancanza
>>>> Stefano Rolando
Circa sei mesi dopo la scomparsa di Gigi – proprio “scomparsa”,
sottrazione all’improvviso, di un amico, di un
compagno di tante cose, di un filo rosso tra la gioventù e il
presente – mi ha preso un crescente senso di mancanza, tanto
da proporre di fare un piccolo evento “in memoria”.
Che ha trovato la naturale risposta di “far le cose per bene” a
un anno, come d’abitudine.
Intanto, eccoci qui.
Ma quel giorno, di sei mesi fa, ho cambiato formalmente,
credo per errore, ma in sostanza per vero lapsus psicologico,
la foto-fondale dello schermo del mio pc. La cosa che – soprattutto
in pandemia – finisce a farci più compagnia.
La foto era stata scattata ad un evento abbastanza recente al
circolo Giustizia e Libertà di Roma, a fine discussione, con le
scritte luminose di altri tempi, le bandiere rosso bruno di altri
tempi, io con la mia cravatta di altri tempi, lui leggermente
chino, apparentemente spaesato, in realtà vigile su tutti. E
“tutti” avevano partecipato a quella discussione. Gennaro Acquaviva,
Giuliano Amato, Claudio Martelli. Ci doveva essere
Claudio Signorile. Con comune nostro sentimento di perdita
non c’era Gianni De Michelis. E poi tra di noi, Mondoperaio,
Cesare Pinelli, Pio Marconi, Alberto Benzoni, Piero Pagnotta,
Luciano Benadusi, Paolo Borioni, Celestino Spada. Vado a
memoria, chiedo scusa. Certo, Giulia Giuliani, Elisa Gambardella.
Anche Tommaso Nannicini aveva partecipato.
Il “filo rosso” di Gigi, sempre lungo, sempre ragionato, sempre
con il suo brusco modo di essere accogliente. Brusco poi…
meglio dire specifico, legato a un quesito, un tema da svolgere,
soprattutto un confronto possibile, da Ugo Intini a Claudio
Petruccioli, da Pia Locatelli a Claudia Mancina.
Quel filo allargato oltre gli steccati di vecchie abitudini, allungato
dalla memoria al futuro, Gigi se lo portava dietro
dalla militanza aclista, poi nel pluralismo di correnti di senso
culturale e politico nel Partito Socialista Italiano, infine nel
lungo tempo della traversata del Mar Rosso (proprio questa la
metafora giusta), recuperando via via una filiera magari smarrita,
magari diversamente affaccendata, nessuno prigioniero
della nostalgia, tutti con il convincimento di antiche ragioni
ma anche di maturati e contenuti giudizi autocritici.
Per queste semplici ragioni è stata una grande cosa la direzione
di Mondoperaio di Luigi Covatta.
Nato a Forio d’Ischia il 15 maggio 1943 e morto a Roma il 18
aprile 2021, cresciuto a Milano (con il minuscolo snobismo di
avere frequentato il Liceo Parini1), dal 1979 al 1994 parlamentare
socialista e due volte sottosegretario di Stato (all’Istruzione
e ai Beni culturali), vicepresidente della Commissione
per le riforme istituzionali (1992-1994), autore di un bellissimo
Menscevichi. I riformisti nella storia dell’Italia repubblicana
(Marsilio 2005) e, da ultimo, di un sorprendente Agorà e
società educante (Volta la Carta, 2020). Nei due libri editi da
Diabasis (Diario della Repubblica, 2006 e La legge di Toqueville,
2007) ha ragionato pubblicamente sulla vita e la morte
della prima Repubblica.
Ha pensato, coordinato, prodotto 115 numeri della rivista
Mondoperaio. Rimettendo in connessione circa duecento
autori, con un discreto equilibrio tra vecchia guardia e nuove
generazioni. I suoi editoriali sono stati ogni mese la traduzione
plastica del rapporto tra pensieri e parole: con riferimenti originali,
a difesa di una storia, alla ricerca di un interrogativo irrisolto,
con il dovuto pessimismo della ragione e con l’intelligente
sarcasmo usato per fare la differenza tra un paese
possibile e un paese sgualcito.
Nel suo primo numero, a gennaio del 2009, schiera tutta la
prima squadra: Amato, Cafagna, Vassalli, De Michelis, Treu,
note1 Lo cito perché su questo argomento – lui del Parini, io del Carducci – era
rimasto l’unico spazio occasionale per scaramucce, visto che in politica
andavamo d’accordo su tutto e sul derby milanese non c’era partita, perché
Gigi restava uno sfegatato napoletano.
Boniver. Ma anche Pinelli, Ricciardi, Pombeni, Marconi, Badini,
Cafissi, Pellegrino, Cazzola, Benadusi. E ancora Craveri,
Benzoni, Pedullà, Paolo Franchi, Marcello Fedele, Daniela
Brancati. E Riccardo Nencini. E altre. E altri. Pubblica la mia
intervista a Francesco Cossiga, tra le ultime in vita del presidente,
questa tutta dedicata al suo rapporto con Craxi e i socialisti.
Fa uno dei suoi sorrisetti nel mettere il titolo all’editoriale:
“Revenants”. “A volte ritornano. Lo scriviamo noi prima
che lo scriva qualcun’altro”. Poi ricorda che l’origine del
titolo è crociana. E quando chiude traccia la linea del programma
editoriale: “Per cui può darsi che in questo strano
paese tocchi persino ai revenants indicare un itinerario per
uscire dalla realtà virtuale e tornare alla realtà effettuale,
quella fatta di uomini in carne ed ossa che lavorano, consumano
e progettano un futuro per i propri figli”. Nel suo ultimo editoriale,
nel marzo 2021, intitolato Sonnambuli, il direttore di
Mondoperaio è dentro la lunga scia che arriva fino ad oggi:
“Ci vorrebbe la lucidità di Christopher Clark per descrivere
la performance della nostra classe dirigente nell’ultimo decennio.
Solo dei sonnambuli, infatti, potevano immaginare
che dopo l’esperienza del governo Monti tutto sarebbe tornato
come prima e la dialettica politica avrebbe trovato il modo
per rifluire ordinatamente nello schema bipolare inaugurato
nel 1994. E infatti non fu così”.
Proprio in quell’ultimo numero accudito fino alla distribuzione,
Gigi Covatta annotava fulmineamente uno scatto di serietà rispetto
al decennio che gli toccò di commentare, mese per
mese, attraverso la rivista, tra i periodi storici più deboli
quanto a riformismo ma anche in cui la parola “riformista”,
vagamente riabilitata, veniva spalmata come una sorta di aggettivo
rituale da parte di svariate e spesso inappropriate posizioni:
“Quanto al riformismo, già negli anni di Reagan e
della Thatcher, Norberto Bobbio ci spiegò che “dove tutti
sono riformisti nessuno è riformista”.
Per una Società Educante
>>>> Pietro Caruso
Quella che doveva essere una lezione in presenza, su
invito della professoressa Anita Gramigna per l’inaugurazione
del corso di Pedagogia all’Università degli Studi di
Ferrara, è diventata per Gigi Covatta una straordinaria occasione
per esercitarsi in un contributo di riflessione sul ruolo
delle riviste di cultura politica nell’Italia Repubblicana.
Un’occasione che Covatta ha saputo cogliere, sfruttando
esperienza sul campo, rete di relazioni, straordinario acume
politico e culturale che hanno reso possibile la sua lunga permanenza
alla direzione di Mondoperaio, dal 2009 fino ad
aprile del 2021 anno in cui tutta la comunità culturale e politica
italiana, non solo quella di parte socialista, ha accusato
con grande mestizia la sua scomparsa.
Il saggio di Covatta, per le edizioni Volta la carta di Ferrara, è
uscito nel 2020 nella collana Terre di frontiera, ben situandosi
come contributo sociologico culturale e politologico ma non
come organico studio accademico. Del resto per la stessa
ammissione dell’Autore, la riflessione voleva cogliere l’influenza
che le riviste, come centri di elaborazione politica e culturale,
hanno avuto nel sistema politico e come si debba necessariamente
distinguere fra la prolifica attività di produzione
delle culture politiche nella Prima Repubblica, almeno fino al
1993, e una dimensione culturale più asfittica, se non del tutto
insufficiente, negli anni successivi fino a quelli più recenti.
Del resto le riviste di cultura politica sono perfettamente incastonate
in quel fiorire di stampa quotidiana, e in questo caso
soprattutto periodica, collegata all’espansione del partito di
massa, come strumento di formazione culturale e politica. In
questo campo, l’esperienza italiana, secondo Covatta ha
assunto caratteristiche diverse rispetto a quelle del laburismo
inglese o della socialdemocrazia tedesca, perché nella nostra
vicenda sia alla fine del XIX secolo, sia nella prima parte del
XX secolo, sono sempre le élite intellettuali, non per forza
legate alle dinamiche sociali, ad assicurare la vitalità di una
Critica Sociale, della La Voce o persino dell’Ordine Nuovo,
segno di culture vivide ma tutto sommato minoritarie, anche
durante l’inizio dell’antifascismo con riviste come Rivoluzione
Liberale, Quarto Stato.
Il clima dell’immediato secondo dopoguerra è stato molto
favorevole per la crescita di riviste tese a realizzare una diffusione
di idee ed un confronto teorico capace di arricchire di
contenuti il dibattito dei gruppi dirigenti. Covatta, nel suo
saggio, si sofferma solo su alcune delle riviste più importanti
che si avviarono proprio durante gli anni della ricostruzione
economica e politica del Paese.
Esempio è quello di Rinascita, periodico fortemente voluto da
Palmiro Togliatti che per lanciarlo, da Salerno dove si era
appena insediato, scelse come forma di pubblicità la pubblicazione
dei Quaderni dal carcere di Antonio Gramsci, per
indirizzare la linea di politica culturale del Pci, orientata
appunto all’egemonia. Breve cenno anche al Politecnico,
diretto da Elio Vittorini, che non accetterà un ruolo intellettualmente
subalterno alla linea culturale del Pci e chiuderà
dopo soli due anni, nel 1947. Ovviamente più articolata è la
definizione del ruolo ricoperto, in questa disamina, dalla rivista
Mondo Operaio che Pietro Nenni volle fortemente far
nascere nel 1948 (il primo numero è del 4 dicembre), dopo
che era stata appena metabolizzata la sconfitta del Fronte
Democratico Popolare con il grave insuccesso dei candidati
socialisti all’interno dell’alleanza con il Pci.
In origine, la rivista non si pose alcuno dei problemi che, in
chiave di autonomia ideale e politica, caratterizzeranno, a
partire dal 1953, il percorso dei socialisti. Covatta non commette
l’errore di costruire una narrazione agiografica della
rivista teorica del Psi. In maniera rigorosa ne ricorda i passaggi
e i direttori che si sono succeduti, cogliendo il dibattito
che prima vede la presenza di Rodolfo Morandi, infaticabile
organizzatore di partito e cultore della sua appartenenza, poi
di Raniero Panzieri, che uscirà dal Psi per dare vita ad una
esperienza di riflessione radicale con i Quaderni Rossi, fino
a giungere al dibattito riformatore del gruppo di intellettuali
(i 101) che raccolti attorno ad Antonio Giolitti, abbandonarono
il Pci dopo la repressione sovietica in Ungheria nel
1956, dando vita a un primo nucleo che ritroveremo poi nella
feconda stagione di Mondo Operaio dall’inizio degli anni settanta
La conoscenza del mondo cattolico da parte di Covatta, che
fu segretario nazionale dell’Intesa universitaria e che in seguito
seguì l’esperienza dell’Acpol con Riccardo Lombardi
e del Movimento Politico dei Lavoratori di Livio
Labor, è evidente nella sua analisi delle riviste di questa area
politico-culturale. Esperienze come quella Cronache Sociali, fra il 1947 e il
1951, sotto la direzione di Giuseppe Glisenti, con la partecipazione
di figure come Dossetti, Aldo Moro, Gianni Baget Bozzo, Achille Ardigò, Costantino Mortati,
Leopoldo Elia, Pietro Scoppola che segna il tentativo di costruire
un autentico partito cristiano di massa con una “vocazione
che non si stenterebbe a chiamare socialista”, come
scrisse Umberto Segre nel 1951, ma finisce per scontrarsi con
il solido blocco di potere statale democristiano e l’irrompere
sulla scena della comunicazione della Rai, sotto la direzione
di Ettore Bernabei.
Il 1956 – ricorda Covatta – è l’anno decisivo della ritrovata
autonomia dei socialisti e del tentativo di tessitura di un
dialogo con i socialdemocratici di Saragat e poi con i democristiani
di Moro.
Sul fronte laico è vivace il dibattito sull’apertura a sinistra che
viene animato da due importati riviste: Il Mondo fondato da
Mario Pannunzio nel 1949 e il mensile bolognese Il Mulino,
che fu il frutto dell’incontro di tre vivaci giovani studiosi
dotati di grande vigore intellettuale: il cattolico Luigi Pedrazzi,
il liberale-repubblicano Nicola Matteucci e il socialista Federico
Mancini.
La ventata del Sessantotto, per l’Italia, nell’analisi di Covatta,
pur suscitando un forte movimentismo ideale e politico, non
si caratterizzò per la nascita di robuste riviste di pensiero. È
vero però che il mensile
Il Manifesto, dall’estate del 1969, creò un nucleo con
Pintor, Rossanda, Natoli, Castellina, Caprara e Magri, che
è sfociato nella vicenda di un quotidiano comunista irriverente
ai poteri e che ha ancora una funzione dirompente nel panorama dell’informazione.
Mentre il Pci assorbì l’influenza dell’organicismo di Rodano con la sua Rivista
Trimestrale, il Psi, che aveva riconquistato spazio politicoa sinistra rompendo
il patto di unità con i socialdemocratici, compie un cambiamento di rotta significativo
sul piano ideale con l’affidare nel 1972, durante la segreteria
di Francesco De Martino, all’intellettuale di origini
urbinati Federico Coen la direzione di Mondoperaio (che ha
utilizzato la crasi del nome proprio per superare la dimensione
squisitamente classista delle origini della rivista).
Covatta, con grande onestà intellettuale, ha riconosciuto alla
gestione di Coen l’apertura a studiosi, giovani e non, appartenenti
ad un arco di idee molto più ampio di quelle del Partito
socialista. In quegli anni Settanta, Norberto Bobbio con la sua
critica alla debolezza della dottrina dello Stato nel marxismo
e Massimo Salvadori con il suo attacco frontale alla teoria
gramsciana dell’egemonia, che altro non era se non una
variante dell’egemonia leninista del partito, scelsero proprio
la rivista di Coen per manifestare il loro pensiero incrociando
le lame con il Pci. Un periodo d’oro per la cultura socialista
nella quale, anche sotto la gestione di Craxi, si contarono i
qualificati interventi di Luciano Pellicani, Luciano Cafagna (a
cui Covatta è sempre stato debitore di un confronto intellettuale
di altissimo livello), Massimo Teodori, Giorgio Ruffolo, Paolo
Flores d’Arcais, Alessandro Pizzorno, Gianni Vattimo, Giuseppe
Vacca, Giuliano Amato; senza dimenticare l’apertura al socilismo
di altri paesi come quello francese con gli interventi di
Gilles Martinet o Pierre Rosanvallon nonché agli intellettuali
del dissenso nei Paesi satelliti dell’Urss, tra cui Jiri Pelikan.
Nonostante l’alto livello raggiunto in termini di dibattito,
come di abbonamenti e diffusione, raggiunto da Mondoperaio,
questo però non portò consensi al Psi del “nuovo corso”, in un
sistema politico ancora dominato dal “bipartitismo imperfetto”
di Dc e Pci, che poi darà vita al “compromesso storico”. Gigi
Covatta dedica uno spazio di riflessione anche al ruolo del
quotidiano La Repubblica diretto da Eugenio Scalfari, ma
scarta subito l’idea che il giornale romano, nato in principio
con la nomea di essere vicino ai socialisti, e poi in realtà funzionale
alle scelte di Berlinguer e persino di De Mita, sia stato
un foglio di orientamento e programma ideale. Le solidi
ragioni di mercato, secondo Covatta, hanno determinato il posizionamento
culturale de La Repubblica.
Sulle ragioni dell’abbandono della guida di Mondoperaio da
parte di Coen, nel 1984, e della nuova direzione di Luciano
Pellicani della rivista, Covatta non si sofferma. Io non credo
che lo abbia fatto per mascherare il contrasto metodologico
che caratterizzò le posizioni intransigenti dal punto di vista
ideale di Coen con la guida di Craxi del Paese, come presidente
del Consiglio. Il problema è che il saggio “Agorà e Società
educante” per l’Autore aveva uno scopo pedagogico tale da
farsi intendere per una ricostruzione storica per sommi capi e
non attraverso una infinità di glosse e note.
Per quanto riguarda la vicenda finale del comunismo italiano,
secondo Covatta la principale accusa che può essere rivolta
sul piano della cultura politica al Pci del 1989 è quella di non
avere voluto affrontare in modo limpido una “chiarificazione
teorica” del proprio percorso ideale e politico, una volta acquisita
la scelta di abbandonare il campo della tradizione comunista
e in modo definitivo i legami, sia pure resisi più
blandi nel tempo, con l’internazionalismo a guida Pcus. La
svolta di Occhetto non fu accompagnata da una robusta revisione
teorica che avrebbe dovuto impattare se non con le
ragioni del Psi (da questo punto di vista Covatta non esprime
un giudizio sulla effettiva portata della proposta di Unità Socialista
di Craxi), con quelle che la cultura socialista aveva
manifestato durante le direzioni della rivista prima di Federico
Coen e poi soprattutto di Luciano Pellicani.
Le vicende di Tangentopoli e la fine della Prima Repubblica,
nell’analisi proposta nel saggio, vengono sintetizzate senza rievocare
gli accadimenti della cronaca. Il giudizio si limita a
condensare nella trasformazione di una parte del sistema giudiziario
in “partito dei giudici” e nella assenziente trasformazione
del sistema informativo in “giornalismo collettivo”: due
gravi anomalie capaci di semplificare molto pericolosamente
la complessità della democrazia italiana a cavallo della fine
del secolo scorso. Un danno inferto anche al popolo italiano e
non soltanto ai suoi temporanei rappresentati politici nel ceto
di governo.
E veniamo ai nostri giorni e al ruolo delle riviste di cultura
politica negli anni nei quali, dal 2009, Covatta ha accettato l’incarico
di assumere la direzione di Mondoperaio, in concomitanza
con la guida del rinato Psi da parte di Riccardo Nencini.
Covatta non nasconde che la fase storica nella quale stiamo
vivendo ha relegato a un ruolo marginale le riviste di cultura
politica, ma il coraggioso intellettuale socialista ne ribadisce
la funzione pedagogica e sociale per un dibattito delle idee
forte e articolato. La cosiddetta Seconda Repubblica non ha
creato un dibattito teorico degno di questo nome e l’occasione
è stata persa sia durante il governo guidato da Massimo D’Alema
– ma soprattutto durante i governi Berlusconi – del tutto
disinteressati a costruire, per lo meno le fondamenta di una
dialettica politica nella quale l’alternanza fra Pd e Pdl, al di là
delle contestazioni di principio, avrebbe potuto comunque
rappresentare una forma di stabilirà democratica.
Proprio questo vuoto di elaborazione culturale e politica –
secondo i giudizi che Covatta riporta nell’appendice al suo
saggio – hanno consentito, a partire dal 2012, la comparsa
di fenomeni come quello dei Cinque Stelle a cui l’Autore
destina la parte conclusiva della sua riflessione. Non lo fa
citando le proprie opinioni, ma richiamando quello che
Mondoperaio ha ricostruito con interventi e interviste di
notevole significato in questi ultimi anni. Infatti, nelle riflessioni
di Pasquino, Gazzolo, Sapelli e De Masi emerge
prepotente il richiamo della ragione ad analizzare i processi
politici senza la lente del pressapochismo e dell’ideologismo
fine a sé stesso. Non ne esce certo un ritratto dei Cinque
Stelle a tinte limpide, tutt’altro, ma la consapevolezza che
le crepe della democrazia, manifestatesi in forme irreversibili
dopo il “no” di Scalfaro al “decreto Conso”, che liquidò la
“la Repubblica dei partiti”, si sono acuite, durante la crisi
della Seconda Repubblica, definibile come “partitocrazia
senza partiti”, ed in cui confusamente navighiamo ancora
affidandoci di volta in volta a “uomini della provvidenza”,
quando, se mai, si sentirebbe la necessità del ritorno di un
robusto dibattito ideale e politico dentro cui le riviste come
Mondoperaio hanno ancora molto da dire e proporre. Sempre
secondo una linea di pensiero critico, che è uno dei lasciti
inestimabili di Gigi Covatta.
mondoperaio 4/2022
La battaglia delle idee
>>>> Celestino Spada
Chi l’avrebbe detto che sarebbe stato un cattolico a sentire
l’esigenza di una considerazione d’insieme e a proporre
un bilancio dell’apporto dei movimenti e partiti politici dell’Italia
unita alla “conversazione” nazionale (un indicatore di civiltà,
per Giacomo Leopardi), alle opinioni e alle volontà
intese al governo della società e delle istituzioni affidato al
suffragio universale? Un bilancio efficace nella sintesi, quello
di Luigi Covatta, cinquanta pagine in formato tascabile poste
sotto un’insegna – Agorà e società educante – inattuale,
estranea all’opinione corrente circa il pensiero e l’azione
politica come ruolo e orizzonte personale, se non di potere,
nonché agli assunti socio-semiotici della comunicazione che
sono venuti a negarne la valenza educativa e formativa, dannandola
come ‘paternalistica’ e ‘autoritaria’, dal 1968 nella
prima Repubblica, e oscurandola nelle performance dello
spettacolo e della messa in scena mediale, dagli anni 1980 e
nella seconda. Occasione: l’invito a tenere nel 2020 la lezione
inaugurale del corso di Pedagogia di Anita Gramigna, docente
all’Università di Ferrara, a lui rivolto, dice agli studenti, “in
quanto mi trovo a dirigere una rivista, Mondoperaio, che
Pietro Nenni fondò alla fine del 1948, e che quindi ora è la più
antica rivista di cultura politica in Italia”1.
Sono dunque considerate le riviste politiche in quanto “sedi di
aggregazione di un nuovo tipo di élite, non legata al censo o
al ruolo sociale, ma fondata sulla condivisione di alcune
idee”, sul modello, ricorda, di Critica sociale fondata da
Filippo Turati e Claudio Treves, che un anno prima della
nascita del PSI (1892) segnò l’avvento, nell’Italia liberale dei
notabili, dei moderni partiti politici di massa. Sono evidenziati
i termini delle sfide maggiori affrontate dall’Italia repubblicana,
dalla sua classe dirigente – nuova, anche nuovissima, dopo il
crollo del fascismo e la Liberazione – impegnata a modernizzare
note 1 Luigi Covatta, Agorà e società educante, Introduzione di Anita Gramigna,Ferrara, Volta la carta, 2020. In Appendice sono riproposti saggi di
Gianfranco Pasquino, Tommaso Gazzolo, Giulio Sapelli e un’intervista a
Domenico De Masi dedicati al Movimento5stelle, pubblicati su Mondoperaio
nel 2013 e nel 2018.
e sviluppare la società nazionale nella democrazia, gli apporti
più significativi di partiti e movimenti al governo e all’opposizione,
di dirigenti, intellettuali e quadri circa gli obbiettivi e
i modi della “trasformazione” della società e dello Stato: tutto
quanto ha reso così ricca e interessante per molti, per quasi
cinquant’anni, l’esperienza intellettuale e sociale, personale e
collettiva, della politica. Ne risulta un contributo alla storia
d’Italia ad alta intensità informativa, quasi un repertorio ragionato
redatto per nodi e passaggi “cruciali” fra il 1945 e il
1992 quando la vicenda dei partiti di massa, a un secolo esatto
dal suo avvio, è giunta allo stadio terminale: per il collasso
della rappresentanza politica nazionale nella tenaglia di Tangentopoli
fra il “partito dei giudici” e il “giornalista collettivo”,
e per la scelta dei suoi gruppi dirigenti di abbandonare il loro
proprio radicamento territoriale e sociale, affidando alla comunicazione
strutturata dai media, soprattutto televisivi, il
loro rapporto con i cittadini e aprendo così la strada alla “partitocrazia
senza partiti”, come l’ha definita già nel 1997 Mauro
Calise – qui, con Luciano Cafagna, Giuliano Amato e Gianfranco
Pasquino, fra i principali interlocutori di Covatta.
Si ripropone in questo “libretto” l’enorme capacità di ascolto
e la qualità e l’intensità del dialogo – che si erano potute constatare,
in particolare, nel suo Menscevichi. Il riformismo
nella storia dell’Italia repubblicana (2005) – con quanti “nelle
università, nelle professioni e nelle organizzazioni della società
civile” hanno dato vita nel corso degli anni e dei decenni alla
“battaglia delle idee” così documentata – fra i quali, ci dice,
“non fu affatto difficile arruolare l’equipaggio” idoneo alla
navigazione di Mondoperaio, quando gliene fu affidata la direzione
nel 2009. Qui l’argomento, “Cultura e politica nell’Italia
repubblicana”, del quale è ribadito l’assunto: “Il ruolo formativo
dei partiti di massa”, è scandito in sezioni – “L’Italia repubblicana”,
“L’apertura a sinistra”, “Il Sessantotto”, “Gli anni ’70”,
“Verso l’Ottantanove”, “La fine della prima Repubblica”, “La
seconda Repubblica” – che si concludono con una sezionediagnosi:
“L’introvabile Agorà”, riferita ai dodici anni della
sua direzione della rivista, e che ancora ci riguarda. Un’attitudine
tenace, quella di Covatta al dialogo e alla formazione,
che si è resa particolarmente evidente in occasione dei seminari
della “Scuola di democrazia europea” intitolata a Luciano Cafagna,
da lui organizzati in collaborazione con la Fondazione
Socialismo e la FEPS (Foundation for European Progressive
Studies).
Interessanti e promettenti, i seminari, già alla lettura dei temi
e dei nomi dei relatori da lui scelti, con le conseguenti aspettative
di interesse e di apprendimento, non deluse in chi
scrive, a Matera (6-8/11/2015): La cultura per lo sviluppo
dell’Europa del Sud, a Pozzuoli (20-21/10/2017): Le nuove
faglie della politica, a Magliano Sabina (30/11-1/12/2017):
La governance locale e la costruzione di una classe dirigente
per la politica. Un tema, quest’ultimo, in cui tornava la situazione
nella quale “già nel 1938 Alcide De Gasperi ammoniva
il giovane Adriano Ossicini: ‘Oggi noi dobbiamo prepararci a
un futuro nel quale, dopo il crollo del fascismo, il ruolo dei
cattolici in Italia sia un ruolo di governo […] dobbiamo
formarci e formare una classe dirigente che sia pronta a
prendere un’eredità fondamentale’” – frasi richiamate in nota,
all’avvio di questo bilancio della vita intellettuale e politica
dell’Italia repubblicana (p. 26).
È singolare il fatto che, come in vista del crollo del fascismo,
al bilancio di una fase conclusa della vicenda nazionale segua
l’indicazione di un compito che, oggi come allora, non riguarda
certo soltanto il mondo cattolico. E che a proporre di nuovo
questo nesso sia un cattolico che le tempeste e le risacche
della storia hanno spinto, insieme ai socialisti da lui scelti a
suo tempo come compagni di vita politica e di partito, sulla
sponda del fiume ancora corrente dell’Italia repubblicana.
Quasi che, dopo la novità, ottant’anni fa senza precedenti,
dell’avvento di esponenti di movimenti e settori cattolici alla
direzione dell’Italia Unita, e dopo il ventennio ed oltre di “posizionamenti”
sul “mercato elettorale” nella seconda Repubblica,
soprattutto fra di essi si possano trovare oggi i custodi,
se non anche i profeti, della ragion d’essere dell’unità politica
della nazione italiana e del suo reggimento democratico. Un
sospetto, un’idea, che per qualche via è venuta a precisarsi,
orientando l’attenzione di chi scrive ai riferimenti alle culture
e sensibilità fra loro anche diverse, se non opposte, dei
segmenti di quel mondo al governo del paese, alle loro scelte
e obbiettivi di programma, che ne hanno deciso e condizionato
le alleanze, e all’egemonia – anche rispetto agli avversari –
della loro “cultura di governo”, con quel che ne è conseguito
nello Stato e nella società, per il ruolo assunto dai partiti nella
nostra “democrazia spartitoria”, in cui tuttora il popolo italiano
si riconosce, nel crescere dell’astensione dalle urne a tutti i
livelli della rappresentanza. Aspetti del racconto e della riflessione
proposti da Covatta agli studenti di Ferrara, che si
possono richiamare qui brevemente.
Non c’è enfasi sul ruolo dei cattolici nella politica italiana ma,
data la sua “centralità” fin dall’avvio della Repubblica, il richiamo
dei nomi delle riviste e di quanti le animarono, attivi
nei rapporti con la gerarchia ecclesiastica come nell’istruzione
pubblica e nei media privati e pubblici, dà concretezza e significato
all’evoluzione del rapporto fra politica e cultura
negli anni ’50 sul versante democristiano del ‘bipartitismo
imperfetto’ con il Partito comunista. In queste pagine, in particolare
nella sezione dedicata alla “apertura a sinistra”, si
rende evidente la scelta di Covatta di attenersi al classico sine
ira et studio nella ricostruzione di vicende che lo videro
presto in prima fila – nel 1965 è eletto segretario nazionale
dell’Intesa, l’organizzazione che riuniva gli studenti di ispirazione
cattolica. Sicché, mentre nel suo Menscevichi ne aveva
fatto notare il ruolo e l’apporto, qui fa solo un accenno ai
“primi riformisti dell’Italia post-fascista, a Dossetti e ai suoi
amici”, e in particolare ad Amintore Fanfani con la sua idea di
“partito vero e proprio” di cui “veicolo furono niente di meno
la Rai, sotto la direzione di Ettore Bernabei, e l’apparato scolastico,
saldamente in mano agli inamovibili ministri democristiani
della Pubblica istruzione” (p. 30-31). Lasciando
perfino non menzionata la “convergenza della destra clericale
e di quella politico-sociale ed economica” – di recente ancora
rilevata e documentata da Paolo Pombeni2 – che accompagna
già dagli anni ’50 il confronto interno alla Dc in quella fase
cruciale, e tutta l’esperienza dei cattolici nella Rai, da Guala a
Bernabei, dal 1954 al 1974 e oltre, data la continuità di quel
gruppo dirigente in posizioni di responsabilità nei programmi
e nell’informazione della Rai riformata.
Ad ogni modo qui, della “apertura a sinistra”, oltre alla
citazione del ruolo del Mondo di Mario Pannunzio e del
Mulino sul versante laico, viene fornita una mappa che si addensa
nelle città del Nord e nelle iniziative del laicato cattolico,
con la rivista Relazioni sociali, nonché dell’arcivescovo di
Milano e futuro papa, cardinale Montini, con le sue “note
inviate alle testate diocesane e parrocchiali”: informazioni,
note 2 L’apertura. L’Italia e il centrosinistra 1953-1963, Bologna, Il Mulino,
2022.
evidentemente, di prima mano, se non anche nell’esperienza
personale di Covatta, che sfugge al controllo dell’autore
quando aggiunge: “La preoccupazione di Montini è che l’apertura
a sinistra disorienti l’elettorato cattolico (e magari
induca addirittura qualcuno ad aderire alla cultura del Psi)”
(p. 34). Mentre la “centralità” culturale e politica del mondo
cattolico torna in primo piano quando fa presente il ruolo di
Franco Rodano, nel dopoguerra leader del movimento dei cattolici
comunisti, che ancora negli anni ’70 – nella scelta della
strategia del ‘compromesso storico’ e poi del ‘governo di solidarietà
nazionale’ – “con la sua Rivista trimestrale influenzava
non solo Berlinguer […] ma diverse personalità attive nella
Dc e nello stesso Psi” (p. 43).
Nel racconto di Covatta c’è un momento e un luogo della vicenda
dell’Italia repubblicana in cui l’intreccio fra il pensiero
e l’azione della politica si è fatto concreto e stringente, in cui
la riflessione su “come stanno le cose” e “dove vogliamo andare”
si è proposta a ridosso, se non proprio all’interno, del
processo decisionale e del “fare” della politica nazionale.
Quello in cui, “nel 1977, Mondoperaio fu la culla di un’iniziativa
più esplicitamente politica, quella della riforma istituzionale”,
pubblicando il saggio “Riforma dello Stato e alternativa
della sinistra” di Giuliano Amato. Nel quale, alla considerazione
delle prassi attivate in Parlamento dopo l’avanzata
elettorale del Pci nel ’76, seguiva la “denuncia dell’impatto
del ‘modello spartitorio’ sugli equilibri istituzionali” e si “reclamava
la necessità di una democrazia governante”, come
pure faceva “un parallelo intervento di Gianfranco Pasquino
contro la democrazia consociativa” (p. 45).
Dopo questo passaggio cruciale – che nel 1978, al congresso
Psi di Torino, divenne Progetto socialista (a p. 47 ne sono indicati
i redattori) e che rimase senza interlocutori nell’opinione
(salvo eccezioni) e negli altri partiti – la politica italiana,
nella ricostruzione di Covatta, è fatta di leader e sigle di
partiti politici alla ricerca di supporter e fiancheggiatori nei
media, soprattutto televisivi, pubblici e privati, alle prese con
problemi identitari e di sopravvivenza come quelli posti dal
crollo del sistema di alleanze e dalla fine dell’Unione
Sovietica e dai processi di “Mani Pulite”, impegnati a definirsi
sui media, presso il loro pubblico e l’elettorato, con idee e
proposte di valore decrescente negli anni rispetto al loro “posizionamento”
nell’universo mentale duale, primitivo e schmittiano,
dell’“O di qua! O di là!” di Rete Italia 1, che dal 1994
ha strutturato la “democrazia dell’alternanza” praticata nella
seconda Repubblica. Una logica e una prassi – quelle del “posizionamento”
divenuto connotato identitario di candidati e
liste elettorali – che hanno segnato in questi decenni i singoli
e le formazioni politiche, piuttosto “aggregati” che partiti attorno
a persone, come nel caso del centro-destra, o ad esso
contrapposti, come il centrosinistra, dove “la lenta marcia
verso il Partito democratico ha accuratamente evitato ogni
confronto culturale” (p. 66). Logica e prassi che – in termini
di “appartenenza”, “vicinanza”, “riferimento” ai più vari soggetti
sulla scena pubblica e televisiva – nella democrazia dell’alternanza
hanno assicurato continuità e ruolo alle varie
componenti in ragione dei loro “pesi e misure” elettorali,
stante la continuità del ‘modello spartitorio’ e del suo “impatto
sugli equilibri istituzionali”, segnalato da Giuliano Amato
quarantacinque anni fa.
Covatta non insiste più di tanto su questa continuità fra la
“Repubblica dei partiti” e la “partitocrazia senza partiti” strutturata
dai media – in cui “al ‘confronto delle idee’ si è sostituito
lo scontro delle rispettive propagande, che non prevede neanche
confronti diretti tra i contendenti, come si è visto nel corso
della campagna elettorale del 2018” – preferendo considerare
il “problema di linguaggi” che la comunicazione politica fra i
cittadini deve oggi affrontare (p. 71). E neppure fa cenno qui
al fatto che nel giugno 2016, in vista del referendum costituzionale
del dicembre successivo, è stato Mondoperaio, da lui
diretto, a riproporre alla pubblica conversazione il saggio di
Amato, con le sue argomentazioni a favore della riforma istituzionale,
non accolte dal silenzio pigro o sornione della
“classe politica”, questa volta, ma travolte dalla squillante vittoria
nelle urne del “Fronte del No” nel quale, ai leader e ai
partiti degli schieramenti che hanno dominato la seconda Repubblica,
si sono aggiunti i newcomer del Movimento5Stelle.
Come si può leggere nelle pagine finali di questo suo ultimo lavoro,
“nel deserto culturale della seconda Repubblica” la scelta
di Gigi Covatta è stata quella di “segnalarne l’aridità”, documentando
e analizzando la cultura, gli orientamenti e le scelte
politiche e di governo in Italia e nel contesto europeo e mondiale,
con l’impegno e gli obbiettivi da lui ancora di recente indicati
ai redattori della rivista: negli ‘Appunti per la programmazione
di Mondoperaio nella seconda metà del 2019’ – “Si tratta di costruire
una nuova cultura politica, senza accontentarsi dell’archiviazione
delle ideologie del secolo scorso” – e negli ‘Appunti
sulle prospettive di Mondoperaio fra 2020 e 2021’: “La rivista
deve da un lato rappresentare una cultura – quella del socialismo
italiano – che è rimasta esclusa dalla formazione del sistema
politico della seconda Repubblica; dall’altro essere un punto di
riferimento per quei corpi intermedi (strutturati o spontanei che
siano) oggi presenti ed attivi nella società civile”.
mondoperaio 4/2022 / / / / luigi covatta
Il ministero fondato a Natale
>>>> Bruno Zanardi
Luigi Covatta, già Sottosegretario ai beni culturali dal 1989 al 1992 nei Governi Andreotti,
è stato uno dei non molti uomini di Stato italiani che hanno cercato di dare dignità politica
e culturale alla tutela del patrimonio artistico, facendone il principale interesse della sua vita.
Il che significa che per parlare del suo lavoro per la tutela bisogna rifarsi alla complessa storia
del Ministero dei beni culturali, istituito il 14 dicembre del 1974 con D.L. 657 e convertito in
legge n. 5 il 29 gennaio dell’anno dopo. L’unico Ministero della storia d’Italia fondato durante
le vacanze di Natale, come Gigi amava dire ridendo amaramente di Spadolini e dei molti altri
improbabili ministri dei beni culturali con cui aveva avuto a che fare.
Parlare di tutela del patrimonio artistico oggi, nel tempo di
una guerra combattuta in Europa durante una pandemia
che della prima sembra essere stata la prova generale, può apparire
un esercizio tra il privo di senso e il patetico. Non lo è
se si pensa che le opere d’arte sono l’espressione più immediatamente
percepibile di quel “passato” che Platone ci ha
detto essere “la divinità che quando è presente tra gli uomini
salva tutto ciò che esiste” (Le Leggi, VI.775). Da qui l’esserne
legittimo, o meglio necessario parlarne nonostante tutto. E di
parlarne in modo critico, che è l’unica possibilità di dare al
passato un futuro.
Ciò doverosamente chiarito, non ho qui lo spazio per fare una
rassegna delle ragioni alla base dell’enorme ritardo culturale
accumulato dall’azione di tutela del patrimonio artistico in
Italia. Ma credo che vada in ogni caso chiarito che molte, se
non tutte quelle ragioni vengono dalla fondazione dell’infelicissimo
Ministero dei Beni culturali (= Mibac) da parte del
giornalista fiorentino Giovanni Spadolini nel 1975. Tre anni
dopo il suo essere passato alla politica, perché nel 1972
licenziato dalla direzione della “Corriere della Sera” per i
motivi culturali, morali e politici raccontati con molta precisione
da Giulia Maria Crespi nella sua recente autobiografia; Giulia
Maria Crespi fondatrice del Fai che oggi è, lo aggiungo di
passaggio, l’unico organismo (privato) dedicato alla tutela e
alla valorizzazione del patrimonio artistico che funziona in
Italia. Mentre le ragioni del perenne stato di confusione e
inefficienza del Mibac si riassumono nel durissimo giudizio
che ne diede Sabino Cassese nel momento stesso della sua
fondazione:
“Il nuovo Ministero dei beni culturali è una scatola vuota. Il
provvedimento della sua costituzione non indica una politica
nuova, non contiene una riforma della legislazione di tutela
[il mantenimento in vigore della l. 1089 del 1939]; consiste in
un mero trasferimento di uffici da una struttura [l’ottocentesca
Direzione Generale Antichità e Belle arti], all’altra [il nuovo
Ministero] e non si vede perché uffici che non funzionano dovrebbero
funzionare riuniti in un unico Ministero”.
Locuzione lapidaria cui ne aggiungo una seconda e non molto
diversa che ci ha detto Luigi Covatta nel 1991 quando era sottosegretario
del Mibac:
“Credo che la debolezza strutturale del nostro Ministero continuerà
fino a quando la politica e una certa opinione pubblica
continueranno a non riconoscerne il ruolo fondamentale di
coprotagonista della politica culturale per un verso e della
politica del territorio per un altro”.
Due affermazioni cui si aggiunge l’averci messo a disposizione
l’Istituto centrale del restauro, grazie ai lavori di studio e
ricerca condotti durante le direzioni, prima di Pasquale Rotondi
(1961-1973), poi di Giovanni Urbani (1973-1983), i fondamenti
dell’organizzazione metodologica, cioè la “tecnica” (Heidegger),
con cui conservare il patrimonio artistico dell’Italia e degli
italiani nella qualità che lo rende unico al mondo. La suainfinita e ultramillenaria coestensione nell’ambiente. La conservazione
programmata e preventiva del patrimonio artistico
in rapporto all’ambiente. Da qui, dai due giudizi di Cassese e
Covatta, e dal piano di conservazione programmata dell’Icr
mai usato dal Ministero, perfino contravvenendo all’articolo
29 del nuovo Codice dei beni culturali (“Conservazione”) che
al suo primo comma ne dispone la realizzazione, da qui il mio
aver concluso che la politica ha ormai rinunciato a governare
il sistema del patrimonio artistico. Perché?
Le ragioni sono molte. Una è nell’essere divenuto, il governo
del patrimonio, impresa d’immensa, se non insuperabile
difficoltà di realizzazione. Ciò anche per il ritardo accumulato
sul piano organizzativo nel non aver seguito quanto indicato
dall’Icr mezzo secolo fa. Ma anche un ritardo di mezzo secolo
sul piano del pensiero, perché come non è chiaro a molti,
tutela, conservazione e restauro sono prima di tutto un problema
di pensiero. Quindi non aver mai fatto proprio, nessun Ministro,
l’avvertimento che ci aveva dato nel 1960 uno dei grandi
storici della cultura del Novecento, Edgar Wind:
“Di conseguenza Hegel tirò le somme, così come le vedeva
lui. Era arrivato un momento nella storia del mondo, a partire
dal quale l’arte avrebbe perso quello stretto legame che in
passato aveva avuto con le energie centrali dell’uomo; si
sarebbe trasferita al margine, e lì avrebbe formato un ampio
e splendidamente variegato orizzonte. Il centro sarebbe rimasto
alla scienza; cioè a un inarrestabile spirito di ricerca razionale
(…). Egli spiegò che in un’era dominata dalla scienza la
gente non avrebbe smesso di dipingere né di fare statue, né di
scrivere poesie, né di comporre musica (…). Ma non bisognava
ingannarsi, scrisse: “Per quanto stupende le effigi degli dei
greci ci possano sembrare, qualunque sia la dignità e la perfezione
che possiamo trovare nelle immagini di Dio Padre, di
Cristo e della Vergine Maria, tutto ciò è inutile, le ginocchia
non le pieghiamo più” (…). Dovrebbe essere chiaro, dunque,
che pur spostata al margine l’arte non perde la sua qualità
d’arte; perde soltanto il suo legame diretto con la nostra esistenza:
diventa una splendida superfluità”.
Quindi? Quindi non capendo o non conoscendo la politica,
con il profetico ragionamento di Wind non ci si è resi conto
che egli vaticinava, tra l’altro, anche il fallimento in partenza
della politica dei musei. Quella fatta in Italia negli ultimi cinquant’anni.
Aver museificato tutto ciò di cui non si sapeva
cosa farne, creando così 4.908 tra musei, aree archeologiche,
monumenti ed ecomusei aperti al pubblico in Italia (Istat),
cioè 246 musei in media per ognuna delle venti regioni
italiane. Un numero evidentemente insostenibile sul piano organizzativo
ed economico. Ma anche un numero reso direttamente
folle, quando gli si aggiungessero quello degli archivi e
delle biblioteche storiche, ossia delle chiese sempre colme di
importanti testimonianze della civiltà artistica locale, quando
non di capolavori, e anche quello dei palazzi monumentali
pubblici e privati spesso con al proprio interno importanti
opere e talvolta capolavori, e così via.
Ma ancora. Come appena detto, il Ministero dei beni culturali
ha di fatto rinunciato a governare il sistema il patrimonio artistico-
ambiente. Perché? Domanda cui si può rispondere
dicendo che all’interno di quell’organismo si sa bene che una
azione di tutela razionale e coerente comporterebbe il venire a
capo con mezzo secolo di ritardo, non tanto e non solo ai ragionamenti
di Wind (peraltro non il solo allora a dire quelle
cose, si pensi a Alexandre Kojève o alla celebre affermazione
fatta da Tocqueville all’incirca un secolo prima “on ne s’attache
qu’à ce qui vit”), ma il dover far ripartire l’azione di tutela dai
lavori di ricerca sulla conservazione programmata realizzati
dall’Icr e avversati da tutte le soprintendenze. E sa anche
bene, la politica, di non avere gli uomini per venire a capo di
quel problema, perché i funzionari sono spesso manifestamente
inadeguati alla bisogna. Faccio due mortificanti esempi che
riguardano la città d’arte più importante del mondo, Venezia.
Il primo, l’annuncio dato un anno fa alla stampa da uno dei
suoi maggiori dirigenti che il Ministero ha trovato il modo per
salvare i monumenti dai danni provocati dagli allagamenti di
acqua marina; fasciarli con del tessuto-non tessuto. Il secondo,
la chiusura da una quindicina di anni delle visite al più
importante ciclo di affreschi di Venezia, quelli del Tiepolo a
Palazzo Labia, perché il restauratore indicato dalla proprietà
(la Rai di cui quel palazzo è la sede veneziana) che deve intervenire
su quegli affreschi è antipatico alla locale soprintendente
e ai suoi amici. Così come la politica sa che dal mezzo secolo
trascorso dalla mancata attuazione dei progetti dell’Icr sulla
conservazione programmata, sempre più grave e veloce è
stato il dissesto del territorio sia sul piano idrogeologico, che
urbanistico. Quello mai corretto da una produzione legislativa
nazionale sostanzialmente ferma ai vincoli e ai divieti, peraltro
spesso contraddetti da centomila regolamenti comunali diversi,
anche radicalmente, in luoghi distanti tra loro pochi chilometri.
Aleggiando inoltre su tutto, mezzo secolo di una forte variazione
della composizione e della dislocazione della popolazione
italiana la cui età media è dal 2011 a oggi aumentata di
quattro anni, cioè da 41,9 a 45,9 (Tuttitalia). Mentre la
previsione (Gefira) è che la popolazione, nel 2022, di 55
milioni di abitanti nativi italiani, nel 2080 scenderà a 27 milioni,
fino ad arrivare a 20 milioni nel 2100. Ciò mantenendo
l’Italia l’attuale numero di abitanti, perché i nativi indigeni
nel frattempo deceduti saranno rimpiazzati da quelli provenienti
soprattutto da Asia e Africa, quindi donne e uomini lontanissimi,
per tornare a Wind, dalle nostre ultramillenarie tradizioni
storiche, culturali e religiose.
In sintesi, la politica si trova di fronte a un problema estremamente
differenziato e di proporzioni immense, tale da poter
essere risolto solo con un progetto di lungo periodo. Progetto
da condividere innanzitutto con i livelli politici nazionali, regionali
e locali, poi con un’Università che si metta finalmente
in grado di formare figure che possano sostenere la durezza
di una sfida conservativa e organizzativa, la quale oggi può
essere affrontata solo agendo sul piano dell’innovazione
tecnica e dell’immaginazione scientifica. Quindi, detto molto
in fretta, con la digitalizzazione dei dati e la loro elaborazione,
utilizzando l’intelligenza artificiale. Ma anche un progetto
che deve trovare fondamenti nella tradizione quando si debba
costruire un nuovo che impatti sull’esistente storico. Fondamenti
che sono due materie oggi dimenticate nelle facoltà di architettura,
il disegno dal vero, perchè un architetto che non sa
disegnare è come un chirurgo che opera senza conoscere l’anatomia,
e la storia dell’architettura. Né dimenticando, sul
piano della progettazione, l’enorme spazio che si aprirebbe
per il nuovo e per le tecnologie di cui dotarlo quando si realizzassero
dei contenitori per i monumenti all’aperto, di cui
ottimo e solo esempio che conosco è, a Roma, l’Ara Pacis.
Un simile progetto avrebbe bisogno d’una radicale riforma
dell’azione di tutela, ponendola in rapporto all’ambiente e organizzandola
nel senso della prevenzione e della programmazione,
per essere poi messa in opera da una struttura amministrativa
d’indiscutibile competenza, perciò in gran parte da
formare o da riformare. Ciò ben sapendo delle difficoltà che
incontrerebbe una simile riforma, quelle attestate oltre ogni
possibile limite dall’aver il Cun promosso, quattro anni fa, a
coordinatore dei corsi universitari di formazione dei restauratori
un architetto bocciato al concorso di Ordinario e che mai ha
fatto un restauro con le proprie mani in vita sua. Quindi
sapendo che formare figure realmente competenti significa
mettere in discussione la reale preparazione dei docenti universitari,
che da sempre educano al lavoro i funzionari dell’amministrazione
pubblica, oltre che la cosiddetta “borghesia
delle professioni”. Nel caso, discutere la formazione, oggi,
soprattutto degli architetti e, in minor misura, degli ingegneri
e dei restauratori. Quel che darebbe luogo a inevitabili reazioni
corporative più o meno violente.
A questo punto la politica (sempre in ipotesi) ha aggiunto
alla vasta gamma di problemi appena visti l’evidenza che
un’azione di conservazione programmata, in rapporto all’ambiente,
produrrebbe un rapido e facile controllo dell’uso
del territorio, riducendo così in modo decisivo lo storico
“margine aggiunto” di clientele, voti e danari che le arrivano
dalla speculazione e dall’abusivismo edilizi, come dai
permessi di edificazione non solo taciti, ma anche espliciti,
l’uso privato delle acque pubbliche, eccetera. Un solo
esempio, l’incredibile, ma vera, vicenda del falansterio di
Punta Perotti, a Bari, costruito con tutte le necessarie licenze,
per essere poi detto un “ecomostro” e farlo saltare con la dinamite,
con infine la giusta pretesa del costruttore di essere
risarcito. E ha inoltre preso atto, sempre la politica e sempre
in ipotesi, che l’Amministrazione di tutela e l’Università, e
con loro la stampa, mai hanno chiesto un impegno dei
Governi per realizzare una riforma dell’azione di tutela. A
cominciare dal non aver mai chiesto, pubblicamente e non,
che si desse attuazione ai commi dell’art. 29 del Codice
relativi alla conservazione programmata. Forse per non dover
ammettere di condurre e approvare da decenni restauri cosmetici
di pulitura e ritocco quasi sempre inutili e perciò
stesso dannosi.
Valutato tutto questo (dico ancora in ipotesi), la politica ha
concluso, con il consueto cinismo, che attuare un’azione di
conservazione del patrimonio artistico mirata a salvaguardare
quell’ambiente, che nel nostro paese è ulteriore e fondamentale
espressione qualitativa di quello stesso patrimonio, sarebbe
certamente il servizio da rendere all’Italia e agli italiani. Ma
anche sarebbe un’azione esiziale per la sua stessa sopravvivenza,
perché chiunque in Italia abbia tentato di discutere dell’uso
del territorio ha avuto le mani scottate. Come ancora oggi
insegna la violenta messa al bando subita da Fiorentino Sullo,
deputato democristiano, reo di aver cercato nel 1961, in una
Italia in gran parte intatta, di rendere pubblica la proprietà
delle aree, separandole dal diritto di edificazione.
Da qui aver deciso, la solita politica, dico sempre in ipotesi,
di porre in opera una azione di tutela che sembra a tutti gli
effetti una finzione. Decisione presa in tutta tranquillità
perché nessuna vera reazione è da temere da parte di soprintendenti
e professori, in genere sempre filogovernativi, ma
che quando invece contestano, lo fanno chiamando in causa
nelle loro dichiarazioni il perfetto, ma inevitabilmente generico,
quindi innocuo, articolo 9 della Costituzione. E nemmeno
dovendo temere, sempre la politica, proteste per gli errori
commessi in fase di prevenzione dal rischio ambientale
sismico e idrogeologico in primis, e di progettazione degli
interventi, visto che i danni sempre più gravi provocati da
terremoti, inondazioni eccetera, specie su edifici trattati con
le tecnologie cementizie, destano su stampa e televisione un
interesse che dura al massimo una decina di giorni, tornando
poi tutto come prima. Ciò che ovviamente non vale per le comunità
coinvolte in quelle sciagure, che quasi sempre
riguardano luoghi scarsamente abitati e remoti. Quelle stesse
comunità ogni tanto visitate, per consolarle della situazione
indecente in cui sono costrette a vivere da anni e decenni, da
un presidente della Regione, ossia del Senato, talvolta perfino
della Repubblica.
Da qui aver concluso, sempre la politica, che la sola soluzione
del problema della tutela del patrimonio, sia aggirarlo. Cioè
proseguire nel lasciare che alla sua sopravvivenza continui a
provvedere più il caso che un’azione organizzata, fondata su
prevenzione e manutenzione. Esempi? Ne faccio due.
Uno il recentissimo aver elargito, con il Pnrr, 20 milioni a
ventuno piccoli borghi italiani. Elargizione che suona più
come una vittoria alla lotteria, che sostegno economico a un
piano nazionale per la rivitalizzazione del territorio minore,
che è poi l’intera Italia visto che circa seimila dei nostri quasi
ottomila comuni hanno meno di tremila abitanti (Istat). Quindi
un piano di rivitalizzazione dei piccoli comuni che si scontra
sul principio che, in economia, l’utile si calcola “fratto investimento”.
Dopodiché, visto che molto difficile è capire quali
attività possano produrre un utile che giustifichi un investimento
così alto in paesi semideserti, si può dire che siamo di fronte
al solito atto oblativo con cui creare l’ennesimo museo il
quale, con tutto l’affetto che si può avere per quei ventuno
borghi, nessuno o quasi andrà a vedere, ossia promuovere
l’artigianato delle ceramiche tutte uguali in cento altri piccoli
paesi, ossia quello delle stoffe tinte con le erbe, ovvero del
miele biologico e così via, avvitandosi in una desolante e
comune incapacità (e impossibilità, viste le carte in tavola) di
misurarsi con il sempre più vorticoso muoversi di una modernità
ormai sempre più hegelianamente “senza storia”. A meno che
la storia non sia oggi quella costituita da una progettazione architettonica
che ci faccia trovare a Roascio di Cuneo un
edificio in forma di “nuvola”, a Montelapiano di Chieti un
“bosco verticale” e a Soddi di Oristano una “torre in acciaio
curvo e vetro”, così da sentirsi gli abitanti di quei piccoli
paesi tra Milano, Abu Dhabi o Taiwan.
L’altro esempio è l’autonomia amministrativa data a 30 (trenta)
tra musei, monumenti e scavi archeologici sul territorio dei
4.908 musei italiani (Istat). Quindi una riforma che non ha riformato
nulla vista la sproporzione tra quei due numeri e non
riconoscendo che la qualità che rende unico al mondo il patrimonio
artistico italiano, è la sua infinita e ultramillenaria stratificazione
territoriale. Né migliora la situazione l’altra “punta
di diamante” della riforma. Aver per la prima volta ammesso
alla selezione per i concorsi nel ruolo di direttore di un museo
italiano anche figure professionali straniere. Figure risultate
alla fine spesso vittoriose, tuttavia più in considerazione di
precedenti lavori gestionali, che di studi storico-artistici o di
esperienze nel campo conservativo. Da qui il loro essere
spesso prive di bibliografia e anche perfino dichiarano, nei
loro curricula, di non conoscere la nostra lingua. Lo stesso
però sollevando l’iniziativa un entusiasmo generale, in
particolare sulla stampa (alla fine sempre filogovernativa),
che ha visto nei direttori stranieri l’innovazione che finalmente
sprovincializzava la cultura italiana. Senza provincialmente
conoscere, gli entusiasti e gli ottimisti, il livello culturale
spesso mediocre anche dei direttori dei musei stranieri e nemmeno
considerando la profonda verità di quanto ha scritto
Carlo M. Cipolla sulla costante e ubiquitaria percentuale nel
mondo di persone intelligenti e di quelle che tali non sono, temendo
più di tutti, lo storico dell’economia pavese, il “cretino
operoso”.
Nuovi direttori stranieri piovuti come meteoriti in musei e in
un territorio che non conoscono, però tutti votati all’odierno
telos ministeriale della “economia della bigliettazione” La
stessa per la cui realizzazione si sono inventati azioni delle
più varie. Alcune impeccabili. Su tutte aver mantenuto fede, il
direttore del sito di Paestum, Gabriel Zuchtriegel, alla pubblica
promessa di favorire nel suo museo la qualità del servizio
dato ai visitatori e non le feste e i cotillons; ed è un bene che
adesso Zuchtriegel sia arrivato a Pompei, perché la sua
presenza ci consente la speranza che faccia smettere di scavare
quel sito, che di tutto ha bisogno meno che di nuovi reperti
con cui “fare notizia”. Né tuttavia mancando di dire che a
Pompei si sta conducendo un’azione di manutenzione assai
ben fatta, pur se riguarda solo una minima parte dell’intero
sito e se anche l’intervento somiglia molto di più a un restauro
estetico che a una manutenzione.
Altre iniziative sono state invece pittoresche. Ad esempio,
l’apparizione in una televisione privata di un direttore
tedesco che, terrorizzato dal dover dire al ministro che i visitatori
del suo museo non erano aumentati, bensì diminuiti,
ha pensato di trovare nuovi clienti con uno spot in cui
diceva in un italiano da sturmtruppen: “Fenire in riztorante
mio museo, qui manciare buono”. Altre ancora paraculette,
quale aver organizzato, sempre un direttore straniero, in
uno dei più importanti musei italiani una mostra su un’opera
di Caravaggio, un crudo e interessante quadro insanguinato
in proprietà privata, che però di Caravaggio non è in alcun
modo. Così da aver provocato le dimissioni dal consiglio
scientifico del museo di alcuni dei suoi più importanti
membri. Né per questo non riconoscendo che questo nuovo
direttore di museo conduce anche una serie di iniziative in
collaborazione con altri musei e biblioteche del territorio,
che hanno un ben preciso valore didattico e di ricerca, ed è
l’unico che conosco ad aver interpretato correttamente il
ruolo di direttore di un museo con carattere territoriale in
senso regionale. Nemmeno, infine, dicendo delle “cacce al
tesoro” condotte alla sera dentro al Palazzo Ducale di
Urbino, o l’aver messo in mostra nel Teatro di Pompei una
ventina di calchi in gesso di poveri disgraziati morti duemila
anni fa per l’eruzione del Vesuvio, ponendoli su dei trespoli
metallici con un effetto finale tra polli allo spiedo, “museo
della tortura” e funebri Mobiles d’un epifenomeno necrofilo
di Calder. Una mostra tanto violenta e inumana (l’assurda
spettacolarizzazione della agonia) quanto inutile sul piano
culturale, come ha avuto il coraggio di dire la sola Eva Cantarella
(ma credo bene lo sappia anche chi dirige il sito, che
è buon archeologo).
Ultima azione di valorizzazione che qui ricordo è quella
promossa da un nuovo direttore, questa volta italiano, che ha
meritoriamente rimesso in ordine la Reggia di Caserta dopo
decenni d’abbandono, a partire dal suo meraviglioso parco.
Ciò che ha prodotto un forte incremento di visitatori consentendo
così alla Reggia di essere paradigma di molti dei problemi che
stanno intorno alla valorizzazione dei trenta musei così come
pensata dal Ministero, cioè aumentandone il più possibile la
bigliettazione. Il primo e principale è quello causato dalla
stessa riuscita di quella valorizzazione, che ha richiamato alla
Reggia un numero di visitatori (migliaia) tale da essere, da
una parte, usuranti l’edificio, nato per ospitare la Corte di un
piccolo regno e non un esercito di persone presente ogni
giorno dentro alle sue sale, dall’altra essere divenuta il contrario
di quel che dovrebbe essere ogni museo. Il momento dell’educazione
alla quiete, al rispetto e al culto dovuto alle opere
d’arte. In secondo luogo, va osservato il cospicuo investimento
ministeriale in restauri; le cifre che si leggono parlano d’una
sessantina di milioni, che sta dietro al successo della visita
alla Reggia di Caserta. E qui si va al principio economico
secondo il quale per produrre profitti occorre investire. Principio
che porta con sé una domanda: il Ministero è in grado di
mondoperaio 4/2022 / / / / luigi covatta / un anno
mettere a disposizione, non sessanta milioni, ma anche un
solo milione di euro per tutti i 4.908 musei italiani? E
soprattutto è in grado di indirizzare e controllare le azioni
conseguenti a quella spesa, inserendole entro un condiviso
piano generale di valorizzazione nel senso degli studi e della
ricerca formulato in accordo con gli enti territoriali, quali
regioni e comuni, così come con i privati proprietari, Chiesa,
Fai, Dimore storiche e quant’altri?
Né per questo va sottovalutato l’indubbio successo – economico,
si badi bene – ottenuto dal Ministero a Caserta. A cominciare
dal fatto che il successo di pubblico ha portato a finanziare
per intero – così almeno a bilancio – i costi fissi per il mantenimento
della Reggia. Ma vero è anche che circa gli eventi
straordinari, qui l’improvvisa resurrezione della Reggia, esiste
sempre una difficoltà a mantenerne l’interesse nel lungo
periodo, quindi le quantità di visitatori. E a Caserta, forse
anche per aver messo in pensione alla fine del 2018 il direttore
che per attrarre pubblico escogitava in continuo eventi di ogni
genere (sfilate di moda, recital di attori, eccetera), nel gennaio
del 2019 i biglietti, così almeno si è letto sui giornali, sono diminuiti
del 23% rispetto al gennaio 2018, una percentuale
enorme.
Una serie di questioni, queste appena dette, che evidenziano
la fragilità della “riforma dei trenta musei”. Riforma alla cui
base è il mito delle “miniere d’oro Louvre e Musei Vaticani”,
evidentemente ignorando ministri e molti tra i professori, i soprintendenti,
i giornalisti e così via, come si sia storicamente
formato il Louvre e altrettanto ignorando che i Musei Vaticani
coincidono con la Volta Sistina e il Giudizio di Michelangelo,
le Stanze di Raffaello e la Basilica di San Pietro, cioè con il
Vaticano stesso, inoltre sottovalutando cosa rappresentino
ancora oggi Parigi e Roma nell’immaginario del mondo intero.
Ma soprattutto non chiedendosi, i mitografi dell’economia
della cultura, quanti sono, per restare alla Francia del Louvre,
i visitatori in un anno dei musei della provincia francese. A
caso, quanti al Musée des beaux-arts di Rouen, piuttosto che
al Musée de Picardie di Amiens? Un numero più vicino a
quello del Louvre o a quello di Palazzo Abatellis, a Palermo,
o della Galleria Nazionale di Palazzo Barberini, a Roma, o del
Museo archeologico di Ancona, per citare solo tre dei quasi
cinquemila musei non contemplati nella riforma dei trenta
musei? Soluzioni?
Una sola. Riflettere con molta attenzione sulle parole già
prima citate di Luigi Covatta. Cioè che per salvare non tanto
e non solo il nostro patrimonio artistico, ma l’identità stessa
della nostra civiltà e, con essa, di una parte cospicua della
civiltà dell’Occidente, bisogna prendere atto che “la debolezza
strutturale del Ministero dei beni culturali proseguirà fino a
quando la politica e una certa opinione pubblica continueranno
a non riconoscerne il ruolo fondamentale di coprotagonista
della politica culturale per un verso e della politica del
territorio per un altro”. Parole del 1991, trentuno anni fa,
rimaste del tutto inascoltate a ennesima conferma dell’immenso
ritardo culturale in cui vive l’azione di tutela in Italia, tale da
poter dirne che potrebbe ormai non essere più redimibile. Il
ritardo culturale che Luigi aveva tentato di smuovere a fronte
del sempre più evidente coinvolgimento del patrimonio
artistico e di quello civile nello sfascio ambientale del Paese,
ma anche per una stima personale verso Giovanni Urbani e il
suo lavoro alla direzione dell’Icr, scrivendo e facendo emanare
il 19 aprile del 1990 la legge n. 84 per la redazione di un
“Piano organico di inventariazione, catalogazione ed elaborazione
della carta del rischio dei beni culturali”. “Carta del
Rischio” direttamente ispirata al “Piano pilota dell’Umbria”
e, rimasta in uno stato di giacenza per una trentina di anni e
che oggi pare sia stata ripresa per azione del ministro Franceschini,
che ha anche istituito una Direzione generale per la
sicurezza del patrimonio culturale, affidandone la direzione a
Marica Mercalli. Quest’ultima, storico dell’arte con fama di
persona capace, cui tocca tuttavia il non semplice compito di
risarcire il ritardo dei trent’anni con cui la “Carta del Rischio”
ha ripreso vita.
Trent’anni di ulteriore aggressione al territorio, trent’anni di
crolli di chiese, monumenti e semplici edifici d’abitazione
per causa di interventi di consolidamento strutturale tecnologicamente
sbagliati, i cordoli in cemento, ad esempio; trent’anni
di politiche urbanistiche scellerate, peggiorate dalle discrepanze
tra il Testo Unico Edilizia (Dpr 380/01) e le discipline
regionali e ancor più con i regolamenti comunali spesso diversissimi
per realtà urbane che distano tra loro pochi
chilometri; trent’anni di un sempre più grave spopolamento
del territorio; trent’anni del progredire di una sempre più incontrollabile
riforestazione amazzonica degli appennini, con
conseguenze sul piano idrogeologico facilmente immaginabili
e così via. E anche trent’anni di mancata formazione dei funzionari
ministeriali sul tema conservativo. Esemplare in
questo senso è la vicenda della scuola del “Scuola del patrimonio”
aperta nel 2015 e frequentata da 17 studenti all’anno
senza cheil Ministero si preoccupi di tracciare le linee
direttive per una nuova politica di tutela in cui incardinare
quei 17 super-esperti che perciò risultano formati non si sa
per fare cosa.
mondoperaio 4/2022 / / / / luigi covatta / un anno